Ecco chi era l'Ulisse che è ritornato a Itaca

Maria Grazia Ciani racconta l'"altro" Odisseo, oltre l'immagine classica dell'eroe viaggiatore

Ecco chi era l'Ulisse che è ritornato a Itaca

«Io desidero tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno». Le parole, per certi versi inspiegabili, con cui Ulisse, nell'Odissea, «sprezza l'eternità» offertagli da Calipso come canterà l'epilogo del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi sono quanto di più lontano dall'idea dell'eroe-esploratore errante che, da Dante in poi, trionfa nella letteratura e in tutte le arti.

Il viaggiatore metafisico che, nella Divina Commedia, mosso «dalla curiosità di conoscere e dal desiderio di cose nuove» sospinge i suoi compagni al «folle volo», o che, secondo Tennyson, non può «fare a meno di viaggiare» perché deve bere «ogni goccia della vita», l'asceta visionario votato alla ricerca utopica della conoscenza di Kazantzakis, l'Ulisse superuomo di D'Annunzio, quello fin troppo umano di Joyce o il meraviglioso viandante à rebours dell'Ultimo viaggio di Pascoli, che ha per meta il passato e non il futuro, non sono, però, l'Ulisse dell'Odissea. Ispirati tanto dalla nota astuzia dell'eroe della menzogna quanto dalla celebre profezia di Tiresia, che nell'undicesimo canto, ha l'obiettivo di scongiurare ad Ulisse la morte più temuta quella «nel mare impenetrabile, mai amico dell'uomo» (Conrad) ma lascia intravedere, ambiguamente, un ennesimo viaggio dopo il sospirato ritorno ad Itaca («prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che non giungerai presso genti che non conoscono il mare»), i vari Ulisse successivi sono, però, per certi versi, l'opposto di quello di Omero.

Nel suo piccolo, prezioso libro edito da Carocci Tornare a Itaca (pagg. 104, euro 12), Maria Grazia Ciani, già magnifica traduttrice del poema, racconta ora il suo Ulisse, l'altro Ulisse, con ogni probabilità il vero Ulisse dell'Odissea: l'eroe-uomo, o l'uomo-eroe, o forse l'eroe che vuole diventare uomo (non a caso, la prima parola del primo verso dell'Odissea è proprio anér, «uomo»); l'Ulisse che consuma la sua vita, ad Ogigia, sospirando il ritorno, che resta da Circe solo perché appagato «da cibo, vino e sesso», e che, legato all'albero della sua nave, non si lascia sedurre dal canto irresistibile delle Sirene. Racconta il sogno di Ulisse, Nausicaa: la giovane figlia del re dei Feaci «che danzano sulla terra e danzano sul mare» è bella, è giovane, è unica («non ne vidi mai una simile»), ma neppure nella magica Scheria, dove tutto ha il sapore dell'irrealtà, Ulisse riesce a non pensare al suo ritorno. Non a caso, è il protagonista del poema che è già l'archetipo del romanzo d'avventura e, in cui, nell'Ade, sarà il divino Achille a demolire l'ideale eroico della morte gloriosa al prezzo della vita («della morte non parlarmi: vorrei essere il servo di un padrone povero piuttosto che regnare sulle ombre dei morti») su cui si fondava, al contrario, l'epica dell'Iliade.

L'Odissea, del resto, è, più di ogni cosa, il poema della nostalgia: di Itaca, di Ulisse, di Telemaco, di Penelope, di Laerte, di Anticlea, ma anche del glorioso passato e del tempo degli eroi, come dimostra la terribile vendetta sui Proci, nell'ultimo canto, in cui le armi di bronzo di Ulisse «scintillano al sole» nel loro minaccioso fulgore, e lo fanno tornare, per un istante, davvero il «distruttore di città» che era stato nell'Iliade. Il vero Ulisse, però, come sottolinea la Ciani con la sua prosa limpida e magnetica, non è un guerriero straordinario, non è un viaggiatore se non suo malgrado e non aspira per nulla al sublime: il cuore dell'Odissea è, piuttosto, il ritorno al «piccolo mondo antico» di Itaca, simboleggiato dal porcaro Eumeo e dal fedele servo Filezio, dal cane Argo, che riconosce il suo padrone nel momento in cui lo vede, dopo vent'anni, e muore non appena lo ha riconosciuto, o dal talamo nuziale ancorato alla terra mediante cui si riconosceranno Ulisse e Penelope.

È il ricordo del bambino che, seguendo il padre tra gli alberi del loro frutteto, gli chiedeva il nome di ogni pianta («in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi i nomi di tutti»): forse, ancor più degli inganni, del mare e anche del talamo, è in questa immagine degli alberi «ben coltivati», mentre il padre e il figlio si perdono tra i filari, che trova espressione «l'essenza vera e profonda dell'uomo di Itaca, del figlio di Laerte: Ulisse».

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