Delle icone del cinema si parla sempre per aneddoti e luoghi comuni. La miopia di Marylin, le manie di Hitchcock, la camminata dinoccolata di James Stewart. Anche Clint Eastwood è una leggenda del cinema, vivente. Di lui si dice che abbia sempre le idee chiare. Anche in politica. Che il «texano dagli occhi di ghiaccio» fosse un repubblicano convinto è risaputo, che amasse una figura come Trump non era così scontato. È chiaro comunque l'amore di Eastwood per le figure forti e Donald Trump lo è. Su twitter, nei giorni delle elezioni, erano apparsi «cinguettii» attribuiti a Clint. Se non sono veri, sono sicuramente verosimili: «Trump, Trump, Trump. Posso sentire dal mio ranch l'esercito di Trump marciare verso le urne. Suona vittorioso». E poche ore dopo la vittoria del tycoon: «Grazie America, non ho ancora molto da vivere ma so che i prossimi anni saranno grandiosi, non posso ringraziare abbastanza il Presidente Trump».
Un uomo forte è anche il capitano Chesley «Sully» Sullenberger, pilota del volo di linea US Airways 1549 che, il 15 gennaio del 2009 ammarò nell'Hudson River, il fiume che bagna New York. Fu una manovra d'emergenza causata da un'avaria ad entrambi i motori, per aver l'aereo colpito uno stormo di uccelli. Grazie all'abilità e all'esperienza di Sullenberger, tutte le 150 persone a bordo del velivolo si salvarono. Eastwood porta ora quella storia al cinema con Sully, in uscita da oggi in Italia, dopo il successo in terra americana. L'approccio che Eastwood dà al suo Sully, interpretato da un sempre azzeccatissimo Tom Hanks, è un po' diverso da quello che ci si potrebbe aspettare. Il film, infatti, non racconta tanto l'emergenza e non descrive se non a grandi linee quel miracoloso ammaraggio. Si concentra sulla gestione del dopo-emergenza: Sully accolto come un eroe dalla gente comunque e soggetto invece a un'indagine meticolosa e snervante da parte di un'apposita commissione parlamentare che per mesi mise in discussione il suo operato. Eastwood è uno dei più bravi registi sulla piazza di Hollywood, cinque premi Oscar (tre nel 1992, migliore attore, miglior regista e miglior film con Gli Spietati e due nel 2005 per Million dollar baby, miglior regia e miglior film) sono una garanzia di qualità, ma cosa lo ha fatto decidere per questa lettura degli eventi?
"Prima di partire con questo progetto mi sono fatto questa domanda: che approccio dare a questo racconto? Dove sta il conflitto? Illustrare solo una storia di cui tutti conoscono il lieto fine non avrebbe avuto senso e così mi sono letto i documenti di quella vicenda e ho scoperto che il dramma per Sully e per il suo copilota (Jeff Skiles, interpretato nel film da un baffuto Aaron Eckhart, n.d.r.) è arrivato dopo. Ho deciso quindi di raccontare il trauma causato da quell'atterraggio di fortuna e lo stress che i piloti hanno dovuto subire, non tanto a causa del ricordo o delle circostanze dell'accaduto, quanto dell'inchiesta che ne è seguita".
Lei nella sua lunga e avventurosa vita è stato davvero protagonista di un ammaraggio di fortuna. Quanto c'è nel suo film di quel fatto?
"Niente direi, fu tutt'altro allora, e successe tanto tempo fa. Era il 1951".
Ci racconta?
"Avevo 21 anni e facevo il soldato. Io e il pilota del biposto che ci stava portando da Seattle a Sacramento, per un guasto, ammarammo nell'oceano. Non arrivarono i soccorsi, nessuno si accorse di cosa era successo, dovemmo quindi nuotare sino a riva e, una volta a terra, arrampicarci ancora su per una collina, per un altro paio di chilometri, sino a raggiungere una stazione radio e far partire finalmente i soccorsi".
Il suo passato è stato avventuroso quasi quanto i suoi film, il presente racconta il suo incredibile successo alla regia. Meglio ieri o oggi?
"Meglio il presente. Sempre. Io vivo nel presente. Considero il presente il miglior momento della mia carriera, ma è così da sempre: quando quarant'anni anni fa facevo gli spaghetti-western pensavo che fosse quello il mio miglior momento".
C'è qualcosa di allora che oggi non rifarebbe?
"Errori? Allora tendevo a rilassarmi in un genere di successo, gli western, i polizieschi, ora mi piace variare, sondare tutti i temi, raccontare diverse storie di vita".
Guarda mai i suoi vecchi film?
"Qualche volta. Le sensazioni sono strane. Qualche tempo fa mi è capitato di doppiare un mio vecchio film, che è Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Sergio Leone. Ebbene, quel ragazzo sullo schermo cui davo la voce è più giovane di mio figlio".
È più tornato sui luoghi di quei film?
"Sono tornato in Italia, a Roma e a Venezia, ma non sono più stato in Spagna, dove giravamo le scene esterne degli spaghetti-western. Almeria, in Andalusia, un posto incredibile. Non c'era un aeroporto nelle vicinanze. Per raggiungere Almeria dovevi atterrare a Madrid e farti nove ore di macchina. No, non ci sono più stato... Come dire? Primo premio una settimana ad Almeria, secondo premio due settimane ad Almeria".
Considera Sergio Leone un suo maestro?
"Lo considero uno dei tanti registi che hanno influenzato la mia carriera. Tutti i registi con cui ho lavorato mi hanno influenzato e sono stati miei maestri. Anche se non sempre approvavo quello che facevano, comunque mi insegnavano qualcosa, che poi mettevo in pratica oppure no, ma tutti hanno segnato la mia carriera di regista. Anche coloro con i quali non ho mai avuto modo di lavorare. Ho ammirato John Huston e Federico Fellini e, pur non avendo mai recitato con loro, vedere i loro film mi ha fatto cogliere altri punti di vista, altre idee interessanti".
Dicono che i suoi set sono particolarmente ordinati e silenziosi.
"Ho imparato con i cavalli".
In che senso?
"Quando eravamo sul set dei film western, con i cavalli, se alzavi la voce li spaventavi. Ricordo certi registi che gridavano azione così forte che, al momento di girare, sul set non c'era più nessuno, i cavalli erano scappati via, con in sella i cavalieri. Suggerivo loro di limitarsi a sussurrare una parola a bassa voce, che noi attori avremmo capito lo stesso, ma molti di loro amavano sentirsi importanti, e urlare azione".
Lei cosa dice sul set per partire?
"Sussurro: Forza ragazzi, si comincia".
Ricomincerà anche a recitare?
"Mi piacerebbe, ma quante buone parti ci sono per una
persona della mia età? Come regista invece, anche alla mia età posso lavorare. Ma se mi capiterà di imbattermi nel progetto giusto, come fu Gran Torino ad esempio, allora tornerò volentieri da quella parte della cinepresa".
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