La politica e la democrazia rappresentativa paiono insufficienti a reggere le pressioni che da più parti impone la globalizzazione. Ma, soprattutto, incapaci di dare concretezza ai due requisiti che una struttura politica di comando dovrebbe soddisfare in un sistema democratico: essere controllabile dal basso e dare visibilità alle effettive modalità di esercizio del potere. Anche quando rincorriamo l'esigenza di una riforma della politica, che poi è sempre rincorsa alla «governabilità» e alla stabilità sociale, abbiamo infatti l'impressione di inseguire un fantasma perché il potere reale, quello che tira le fila dei processi sociali, economici e culturali, è oramai capace di reinventarsi, di mutare e di essere indefinibile.
Ma allora dove risiede il potere politico? Lo pensavamo avvinghiato alla architettura istituzionale dello Stato, legato a qualcosa di solido e visibile, più verticale e decifrabile e, invece, negli ultimi decenni del 900 ha imparato ad indossare facce e abiti nuovi. Non solo perché la globalizzazione dei mercati ha visto imporre sulle grandi scelte una gestione monopolizzante da parte di multinazionali che si muovono sempre al di sopra e all'esterno di ogni sovranità nazionale (e quindi di ogni verifica democratica) ma perché il controllo e la direzione politica si disperde oramai in mille rivoli. Siamo passati alla «post-globalizzazione», come la definisce Maria Rosaria Ferrarese in Poteri nuovi (il Mulino, pagg.170), vale a dire ad una fase che va ben oltre quella pioneristica di planetarizzazione dell'economia e che, fasciato nelle severe vesti del government, ancora tentava di legarsi ad un rimando esclusivamente politico.
La governance ormai è diffusa, orizzontale e il mondo globalizzato manifesta modalità di potere (pubbliche e private, hard e soft, smart e opache, territoriali e a-territoriali, ufficiali e ufficiose, eccetera) sempre meno decifrabili e riconoscibili, capaci di disincarnarsi, di rendersi anonime, di rifugiarsi dietro incomprensibili acronimi come l'ICANN «che indica un'impresa pubblico-privata che oggi controlla e permette il funzionamento di Internet nel mondo», oppure fare l'esatto contrario, e cioè svelarsi nella maniera più evidente possibile grazie ad un volto riconoscibile come quella di Elon Musk o di Bill Gates.
Queste nuove modalità, avendo sconvolto i tradizionali scenari di potere, da una parte ribadiscono una sorta di estraneità rispetto agli Stati e dall'altra si impongono come apripista nella creazione di norme giuridiche «transnazionali» a cui nessuno sembra poter replicare con uguale forza.
Una rivoluzione silenziosa che Maria Ferrarese schematizza in due passaggi cronologici che danno il senso di un mutamento quasi irreversibile proprio perché ormai assimilato ad ogni livello. Il primo, definito «il trasloco», avvenuto quando il potere ha iniziato a non dimorare più nei palazzi governativi e nelle naturali sedi statali ed istituzionali ma, trovando nuovi domicili in sedi internazionali, in specie in quelli privati e quindi esondando dal consueto percorso di diritto pubblico, si è trovato a strutturare quasi naturalmente «modalità più o meno elusive di procedure di confronto e di dibattito politico». Il secondo, «la metamorfosi», ha rappresentato il passo definitivo grazie al quale il potere, oltre a guadagnare dimore internazionali e private, inventare nuove modalità di comando e di comunicazione, spazi normativi e regolativi di tipo orizzontale, è riuscito a forgiare nuovi legislatori.
Per Ferrarese tutto ciò fa apparire irrealistica ogni ipotesi di ripristino di autonomia in stile sovranista o di cosiddetta «de-globalizzazione». Gli stati nazionali non sono più in grado di risolvere singolarmente questioni che, per la interconnessione di variabili internazionali e spesso di tipo tecnologico, apparirebbe inverosimile anche solo pensare di padroneggiarle in maniera compiuta e definitiva. Al contempo, si paleserebbe invece la possibilità di mettere in moto un parziale recupero di autonomia e riconquistare una porzione degli antichi poteri e delle risorse perdute partendo dall'idea di «glocalità». La via d'uscita sarebbe quella di restituire centralità al diritto e fare in modo che i flussi globali siano declinati secondo le molteplici particolarità dei luoghi, anche perché «la grande frattura tra Stati che mantengono un profilo liberale all'ombra di tutele costituzionali e Stati che coltivano un'idea autoritaria e illimitata del potere fa emergere oggi il diritto come una variabile essenziale della geopolitica e sarà una sfida decisiva per il futuro nostro e della democrazia nel mondo».
Una soluzione che pare tuttavia complicata, al limite dell'assurdo, anche perché la pretesa di voler «ripristinare una situazione di maggiore equilibrio tra pubblico e privato» e il tentativo di riportare in auge una capacità
relazionale da contrapporre alle «visioni imperiali dominanti» presupporrebbe un radicale cambiamento dei rapporti di forza e un cedimento di quelli ora trionfanti. Al limite dell'assurdo, ma l'unico tentativo ancora praticabile.
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