La storia vuole che nel marzo 1968 Jimi Hendrix e Joni Mitchell (lui che stava per esplodere in tutto il mondo, lei ancora semisconosciuta) suonassero entrambi ad Ottawa. Hendrix si esibì al Capitol Theatre e poi, famelico di vita notturna, se ne andò a Le Hibou, il club dove suonava Joni, munito di un gigantesco registratore a bobine.
Il chitarrista registrò tutta l'esibizione della giovane canadese, e alla fine i due decisero di andare in albergo, nella stanza del batterista Mitch Mitchell, per ascoltare i risultati. Facevano troppo chiasso e la direzione dell'albergo minacciò di buttarli fuori se non avessero smesso con quella musica. Tutto finì lì, in quella notte, perché il giorno dopo il registratore di Jimi venne rubato con quelle preziose registrazioni (che comprendevano anche il concerto del chitarrista).
Abbiamo così perso l'occasione di ascoltare la Joni Mitchell degli esordi. Ma, per ascoltare la sua evoluzione dal folk più puro e semplice alle atmosfere sofisticate e jazzy del suo periodo più maturo, esce ora il cofanetto Archives. Volume 1. The Early Years 1963-1967, cinque dischetti che comprendono registrazioni inedite, spesso casalinghe o effettuate in piccoli folk club dell'artista prima che diventasse la famosa «lady of the canyon» e influenzasse tutte le cantautrici a venire. Primo volume, quindi ne seguiranno altri e Joni vuole mettersi completamente a nudo davanti al suo pubblico, come sta facendo l'altro grande canadese Neil Young con i suoi cofanetti da dieci cd l'uno. Joni Mitchell oggi sta abbastanza bene, dopo l'aneurisma che l'ha colpita nel 2015, ma non incide più dischi dal 2007, ovvero dopo l'intenso Shine. È emozionante ascoltarla nel periodo in cui muove i primi passi in un territorio avventuroso come quello del folk anni Sessanta, una scelta d'amore e di ribellione nei confronti delle angherie subite dalla madre e dall'insegnante di pianoforte, che la bacchettava sulle mani quando si azzardava a suonare un tema popolare o lontano dalla musica classica.
«Scrivo ciò che vedo», dirà Joni della sua arte, anche perché è stata anche pittrice e ha diviso con i disegni l'amore per le canzoni. Il cofanetto è fondamentale per capire la sua evoluzione e comprende registrazioni radio, spettacoli nei piccoli club, nastri privati del tutto inediti di quando ancora non si chiamava Mitchell (prese questo cognome quando formò un duo e sposò il chitarrista Chuck Mitchell, poi persosi per strada) e una lunga, interessantissima, intervista del regista Cameron Crowe, il quale racconta curiosi aneddoti e la storia privata della cantante, solitamente chiusa e restia a raccontarsi se non con le canzoni.
Ci sono le sue versioni di classici tradizionali come House of the Rising Sun o John Hardy, ma anche chicche con improvvisazioni jazzate che (anni prima di album come Mingus, dell'amicizia con artisti come Wayne Shorter o della rilettura della sua The River da parte di Herbie Hancock) lasciano intravedere il suo legame con il jazz poi ampiamente sviluppato.
Joni si racconta attraverso la musica, abbiamo detto; basta ascoltare il dischetto in cui si esibisce alla Canterbury House il 27 ottobre 1967 con brani come I Had a King, o sentire le prime versioni di brani che costruiranno la sua leggenda, come Both Sides Now o Circle Game. Joni ha una classe inimitabile e in quel periodo si sente influenzata da personaggi come Dave Van Ronk (il vate del Greenwich Village) che la aiutò parecchio negli esordi newyorchesi fino alla scoperta di Leonard Cohen, che per le liriche è quello a lei più vicino. Scopriamo inoltre dall'intervista che, nonostante gli inizi puramente folk, non ama essere paragonata a Joan Baez, della quale nega qualsiasi influenza sul suo stile.
Un'opera fondamentale, quindi, per ascoltare la hippie lontana dagli hippies, che non andò a Woodstock
per sua libera scelta (c'era un infernale ingorgo di macchine, in direzione del festival) ma che scrisse l'omonimo brano, poi cantato da Crosby Stills Nash & Young, che divenne l'inno della manifestazione e dell'epoca.
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