Ci sono svolte nella carriera di un artista che vanno prese alla giusta velocità, scalando la marcia e tenendo fisso lo sguardo sulla strada. Per Fabrizio Moro questo è uno di quei momenti: il cantautore romano - già due volte vittorioso al Festival, nel 2007 tra le Nuove Proposte con il brano Pensa e nel 2018 tra i big e in coppia con Ermal Meta, con Non mi avete fatto niente - si presenta sotto i riflettori in doppia veste, quella che lo porta sul palco del Teatro Ariston con il brano Sei tu, e quella di regista all'esordio. Dal 7 febbraio arriva infatti nelle sale Ghiaccio, co-diretto con Alessio De Leonardis, storia di periferia romana, pugilato e riscatto, film nella cui colonna sonora spicca proprio il suo brano sanremese. A tutto ciò si aggiunga l'uscita, il 4 febbraio, del nuovo disco, un Ep, dal titolo La mia voce.
Il momento è speciale, come si sente?
«Un po' confuso, ma in senso positivo. Complice lo stato che abbiamo vissuto tutti noi, con la pandemia. Sono passato dalla reclusione tra quattro mura, a meditare su ciò che stava accadendo, scrivere il disco e proteggermi da questo maledetto virus, a tutta questa luce, queste voci e attenzioni».
Lockdown e limitazioni, appunto: con quale stato d'animo li ha vissuti?
«Sono rimasto positivo, e ho scritto molto. E poi ho toccato con mano l'amore della mia famiglia. In situazioni così estreme esce la verità. E la verità, guardandola in faccia, mi è piaciuta».
Tra le persone che l'hanno fatta stare bene c'è il protagonista di Sei tu?
«Quel tu non è una singola persona: è il tessuto umano che mi ha dimostrato amore e mi ha dato speranza».
Quella speranza che vibra a sano ritmo rock in uno dei brani del suo nuovo disco: Continuare a cercare.
«Sì, devo dire che quella canzone rappresenta molto la positività che mi muove in questo momento. Non si deve mai smettere di cercare una dimensione: quando vado a dormire devo sentire di aver fatto qualcosa. Sennò è stata una giornata persa».
Ritorna a Sanremo da ex vincitore in concorrenza con tanti ex vincitori: una competizione in più?
«Per me il Festival non è competizione con gli altri, ma col mio momento. Voglio dire: la tensione che ti viene all'Ariston ce l'hai sia che tu abbia vinto in passato, o che abbia partecipato a tanti Festival. Ti prende quando scendi le scale e vai verso il microfono: sai che non puoi tornare indietro. Devi buttare tutto nei tre minuti che seguono, fondamentali per la tua carriera».
La sua cover nella serata del 4 febbraio sarà Uomini soli dei Pooh: perché questa scelta?
«La canto da sempre, sin da quando me la chiedevano immancabilmente ai matrimoni. È una delle canzoni più belle della storia italiana. Tra l'altro la canterò davanti a Roby Facchinetti e non è che sia così tranquillo».
Dopo la centrifuga del Festival, toccherà al suo film.
«Sono fiducioso. Per me fare regia è stato quasi terapeutico. Amo da sempre il cinema, devo questa passione a mia madre. Ammetto che durante l'adolescenza, in anni difficili, il cinema è stata per me una via di fuga. Entravo nei negozi Blockbuster, passavo ore a scegliermi i film e poi correvo in camera a vederli. A dieci anni vidi C'era una volta in America di Sergio Leone, e il mondo non è più stato lo stesso».
Una volta tanto, dietro i riflettori.
«Stare dietro la macchina da presa mi ha aiutato. Sarà che io non amo i riflettori, voglio solo scrivere storie e canzoni. Poi per forza devo metterci la faccia. Sono sempre stato introverso, sin da bambino. E gli introversi scrivono: ho un sacco di libri nel cassetto».
Il suo film parla di pugilato e di periferia romana: due temi spesso trattati dal cinema.
«Sul pugilato, meglio non pensare ai grandi maestri che l'hanno portato sullo schermo. Quanto alla periferia, ultimamente il cinema sta sfornando qualche cliché di troppo.
Che sia Roma o Napoli, ci sono sempre i palazzoni, la biancheria stesa, gli spacciatori. La periferia di Ghiaccio è invece il Quarticciolo, uno dei quartieri più colorati. Anche in quel mondo devi saper guardare il bello. Perché nel bello c'è la speranza».
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