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"La fiera delle illusioni": disamina del noir d'epoca firmato Del Toro

Favola nera dall’allure faustiana e dalla trama circolare, in cui esseri umani fanno della decadenza morale un esercizio di stile. Il trucco è seducente ma inficiato dalla durata eccessiva

"La fiera delle illusioni": disamina del noir d'epoca firmato Del Toro

La Fiera delle Illusioni - Nightmare Alley, il film diretto dal premio Oscar Guillermo del Toro e interpretato da Bradley Cooper e Cate Blanchett è un thriller noir anni '40 basato su un romanzo di William Lindsay Gresham. Si tratta del secondo adattamento del libro, il primo risale infatti al lontano 1947 e vedeva sulla scena Tyrone Power.

Le sfumature, ora psicologiche ora melodrammatiche, rendono l’opera ricca di atmosfera ma di sicuro non avvincente per l’intera durata di due ore e mezza, onestamente eccessiva.

La narrazione segue le fluttuanti fortune di un uomo misterioso, Stan Carlisle (Bradley Cooper), che incontriamo nell’incipit nell’atto di lasciarsi alle spalle un oscuro passato. Lo vediamo poi orbitare con varie mansioni in un fatiscente luna park itinerante e apprendere dalla “chiaroveggente” Zeena (Toni Collette) e da suo marito Pete (David Strathairn), mentalista, i trucchi dei loro mestieri. Un paio d’anni dopo essere fuggito con una circense di cui è innamorato, Molly (Rooney Mara), lo ritroviamo con lei a New York, ad intrattenere l’alta società con un numero in cui legge apparentemente la mente delle persone. Allettato dal cachet, Stan spinge l’inganno oltre i confini del palcoscenico, dando sfoggio di qualità che non possiede e mettendo a frutto il suo unico talento: quello fraudolento. Sepolta ogni etica professionale, da mentalista si reinventa quindi truffatore grazie all’aiuto della psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett): manipola cioè personaggi di quella stessa ricca élite di cui lei custodisce i segreti. Una volta capito che "tutto è circo", sale sulla giostra dell'immoralità. Il mondo è suo, fino a quando tra le sue vittime finisce un anziano magnate (Richard Jenkins).

L'attesissimo "La fiera delle illusioni - Nightmare Alley", che arriva dopo “La forma dell’acqua”, Leone d’oro alla Mostra di Venezia e statuetta d’oro per il Miglior film agli Oscar, è visivamente una gioia. Le scenografie sono all’inizio la rappresentazione dell'America rurale post-depressione e poi il ritratto opulento dell'high society metropolitana dell’epoca. A rendere più sofisticate le convenzioni tipiche del noir ci sono le teorie psicanalitiche di quegli anni, che affiorano grazie al personaggio che ne dovrebbe essere la vestale e in realtà le imbraccia come un’arma: la professionista dell’inconscio cui dà il volto una perfetta Cate Blanchett.

Magnifica la tripartizione dell’essenza del femminile che “La fiera delle illusioni” affida alle sue protagoniste: c’è la donna che conosce l’arte dell’inganno ma sa dosarla restando onesta, Zeena; c’è quella a contatto coi veri valori della vita e dalle doti salvifiche, Molly (non a caso diminutivo di Maria); infine c’è Lilith, che fin dal nome è l’archetipo oscuro del femminile, quello in grado di portare alla rovina.

La performance monotona di Bradley Cooper è giusta su di un uomo che volutamente non può concedere, a chi ha di fronte, di guardare oltre i suoi modi affabulatori, ma diventa un handicap quando lo stesso inizia un torbido e angosciante viaggio nei luoghi oscuri della mente proprio in compagnia di chi invece, come la Blanchett, sfoggia sguardo felino, charme mefistofelico e pose da vamp. La sua non è la classica femme fatale che seduce per ottenere conferme narcisistiche, denaro o potere. Il suo personaggio va oltre: vuole possedere il destino della propria preda. Si capisce bene che il gioco (di specchi) tra lei e il nostro falso medium sia alla pari solo nella testa di Stan. Lui sfrutta le tragedie altrui per tornaconto personale, ma resta fondamentalmente un povero diavolo che stringe un patto con una incarnazione maiuscola del Diabolico, quella che ti distrae a colpi di beltà e splendore.

Che le apparenze ingannino, del resto, è il leitmotive del film nonché l’essenza stessa del cinema che, quando è tale, riesce a sospendere la credulità delle persone e condurle ovunque voglia. Che si tratti di illusionismo, spiritismo da quattro soldi, seduzione di classe o grande cinema, siamo sempre in presenza di una messa in scena volta a servirsi di un desiderio, anche se con intenti differenti.

Del Toro, intercettando quello del pubblico, va oltre l'intrattenimento, regalando un affresco morale dall'estetica appagante ma che ha tempi di stesura troppo lenti, considerato che se ne intuisce

presto la visione d'insieme.

“La fiera delle illusioni” è quindi un grande spettacolo (che va visto al cinema dove è giusto che sia), ma tradisce la regola aurea: la magia non va mai tirata per le lunghe.

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