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Filosofia come terapia e tanta amicizia. La ricetta di Epicuro per vivere bene

Il grande pensatore di Samo si basava su pochi ma saldissimi principi

«Agisci sempre come se Epicuro ti guardasse». Questa massima di Epicuro, tramandata da Seneca nelle Lettere a Lucilio, potrebbe riassumere la rivoluzione gentile promossa dal fondatore di una delle scuole filosofiche più influenti della storia dell'umanità. Nato a Samo nel 341 a.C., nel 306 Epicuro si trasferì ad Atene, dove stabilì la sua scuola nel «Giardino», centro di un sodalizio i cui principi erano la pratica delle virtù insegnate e l'aiuto reciproco nel nome dell'amicizia. Chi aderiva versava, se ne aveva la possibilità, un contributo annuale, che serviva al mantenimento della scuola, ad aiutare chi ne avesse bisogno e per opere di beneficenza.

Ma qual era, davvero, il pensiero di quest'uomo passato alla storia come «il filosofo del piacere»? Prova ora a rispondere John Sellars in Sette brevi lezioni sull'epicureismo (Einaudi, pagg. 104, euro 12, traduzione di Angelica Taglia), in una maniera che forse, però, banalizza un po' troppo spesso la semplice grandezza di Epicuro: che sarà pure tra i precursori della moderna psicoterapia cognitiva, ma era, soprattutto, l'uomo che scriveva di non temere la morte, «che non è nulla, perché quando noi siamo, non c'è la morte, e quando c'è la morte, noi non siamo». Era l'uomo che esortava a «vivere nascosti» e per il quale il piacere era l'assenza di dolore: «non avere fame, non avere sete, non avere freddo: chi ha queste cose, può gareggiare in felicità con Zeus». Il suo, quindi, è ben distante dall'essere un vacuo edonismo o un piacere meramente fisico, dato che, come scriveva, «l'unione carnale non ha mai giovato; è già molto se non fa danni», ma coincide con la stabilità dell'essere. Non a caso era apprezzato da Seneca il quale, pur appartenendo alla scuola rivale - quella stoica - scriveva che «i precetti di Epicuro sono retti e onesti, e tutt'altro che allegri, perché il tanto decantato piacere è ristretto al poco», e ispirò Virgilio, Lucrezio e Orazio: cos'è, infatti, il «carpe diem» oraziano se non un'imperiosa, malinconica esortazione a vivere liberandosi della «vuota brama dell'infinito»?

Convinto sostenitore della filosofia come terapia, Epicuro esortava a vivere «secondo la natura, per non essere mai povero», mentre vivere «seguendo le opinioni» è una garanzia di povertà (e di infelicità): la vera libertà, infatti, «è bastare a sé stessi». L'individualismo, però, è solo apparente, perché nessuno più di Epicuro - lodato dagli autori antichi per la sua bontà d'animo, la sua umanità e la sua temperanza - fu legato al sentimento dell'amicizia, che, nelle sue meravigliose parole, «percorre danzando la terra».

Un'amicizia su cui fonda la sua idea di filosofia e quindi di esistenza, e dove, come scriveva Carlo Diano - straordinario studioso della sua opera - «la socialità è dominata dall'intelligenza, ma ha il suo cemento nell'amore». Non a caso, Epicuro diceva che «bisogna scegliersi una persona virtuosa ed amarla, e averla sempre davanti agli occhi, per vivere come se ci guardasse». La virtù, insomma, è una condizione; ma quel che conta è l'amore.

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