Francesco Pratella e il Futurismo musicale fra rivolta e tradizione

Teorizzò il nuovo corso delle arti a inizio '900. Ma il suo capolavoro fu un'opera lirica

Quando, il 20 febbraio del 1909, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò su Le Figaro il suo Manifesto del Futurismo pose, sia pur indirettamente, le basi del futurismo musicale. Sia chiaro, Marinetti non era digiuno di musica: Palazzeschi racconta di come, quando qualcosa lo assaliva o lo attanagliava, si sedesse all'organo per dare sfogo a ogni suo pensiero. Ebbene, benché non fosse totalmente avulso dal linguaggio musicale, Marinetti nel suo Manifesto non si occupò direttamente di musica. Serviva, al fondatore del futurismo, un compositore da arruolare per codificare la rivoluzione dei pentagrammi.

È il 20 agosto del 1910, e Marinetti siede nella platea del Teatro Comunale di Imola dove va in scena una rappresentazione della Tosca di Puccini. Nell'intervallo tra il II e il III atto viene eseguito un brano orchestrale: l'intermezzo dall'opera dialettale La Sina d'Vargöun (La Rosellina dei Vergoni) di tale Francesco Pratella. Nato nel 1880 a Lugo di Ravenna, Pratella era un giovane compositore diplomatosi in composizione al Conservatorio di Pesaro e allievo nientemeno che di Mascagni e Cicognani. Le «scene della Romagna bassa per la musica» della Sina fecero breccia e quel compositore etnomusicologo apparve a Marinetti come un'ottima possibilità: nella viscerale espressione musicale del folklore romagnolo di Pratella, Marinetti intravide quell'orgoglio musicale nazionalista che andava cercando. È facile ipotizzare che i due si siano avvicinati quella stessa sera, di certo la loro collaborazione fu immediata. Pratella, infatti, fu l'autore dei tre scoppiettanti manifesti futuristi dedicati alla musica: il Manifesto dei musicisti futuristi (11 ottobre 1910), La musica futurista - Manifesto tecnico (11 marzo 1911) e La distruzione della quadratura (18 luglio 1912).

La musica che maggiormente avrebbe dovuto condensare in sé i dettami dei manifesti pratelliani sarebbe dovuta essere L'aviatore Dro. Il libretto racconta di Dro, giovane benestante che perde tutte le sue ricchezze in una partita a carte con il rivale in amore Rono, ripudia l'amata Ciadi per poi iniziare un percorso di ascesi con la volontà di immedesimarsi e fondersi con la natura: per questo, per unirsi sempre più al cosmo e conquistare il cielo, si improvvisa aviatore, ma l'azzardo gli risulterà fatale. Se, però, la declinazione che Pratella diede alla trama fu essenzialmente futurista (l'esaltazione della figura del pilota e delle sue ardimentose imprese - Marinetti la definì «aeromusica dell'aviazione»), del linguaggio musicale non si può dire altrettanto. Nonostante nei suoi trattati Pratella si fosse scagliato contro «il mediocrismo intellettuale, la bassezza mercantile e il misoneismo che riducono la musica italiana ad una forma unica e quasi invariabile di melodramma volgare, da cui risulta l'assoluta inferiorità nostra di fronte all'evoluzione futurista della musica negli altri paesi» e contro «le opere basse, rachitiche e volgari di Giacomo Puccini e di Umberto Giordano» e «le ricette di quel grottesco pasticciere che si chiama Luigi Illica, quella fetida torta a cui si dà il nome di libretto d'opera», ebbene, nonostante i suoi ruspanti e categorici strali, Pratella optò, per quello che considerava il suo capolavoro, proprio per l'opera lirica. Un'opera che andò in scena il 4 settembre 1920 al Teatro Rossini di Lugo e che ottenne un successo esorbitante. L'aviatore Dro, infatti, nella critica dell'epoca venne descritta come musicalmente assai tradizionale: influssi di Mascagni nelle melodiose linee cantabili, intensi lirismi di derivazione pucciniana e pizzettiana, piacevoli anche le parti orchestrali debitrici soprattutto dell'impressionismo di Debussy. Insomma, una discrasia che spinse l'allora critico del Corriere a scrivere che «se Pratella resta nel grembo della sua chiesa, non vi resta senza qualche eresia».

Per avvicinarsi alla musica di Pratella esce ora un prezioso cd, Opere da camera (Tactus) che offre un esaustivo e nuovo spaccato dell'arte del compositore romagnolo: molte delle tracce contenute nel disco, infatti, sono pagine inedite e in prima registrazione assoluta. La musica di Pratella, qui eseguita dall'ensemble lughese che porta il suo nome, rivela quanto fosse un compositore di stoffa, dalle solide abilità e autore ben incastonato in quel travaglio di inizio '900, ma che comunque informò la sua musica sulla grammatica tradizionale.

Se la sovversività delle teorie del compositore romagnolo, che ruppe con il futurismo per tornare a studiare il folklore della sua terra, rimase in gran parte relegata ai suoi manifesti tecnici, toccò poi a un pittore, Luigi Russolo, marcare la rivoluzione musicale futurista con l'invenzione degli intonarumori.

Ma le basi tecniche le pose, quantunque solo teoricamente, Pratella: L'arte dei rumori è un lungo manifesto scritto sotto forma di lettera a quello che Russolo stesso considerava il fondatore della musica futurista il «caro Balilla Pratella, grande musicista futurista».

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