Che sia giustificata o meno, i grandi si portano sempre dietro una fama. Quella che da sempre avvolge il nome di Anton Cechov in Italia -grazie all'inevitabile imprinting marchiato Visconti e Strehler- ha la forma di una sospesa bruma di languida malinconia. Personaggi eternamente indecisi, disillusi, insoddisfatti di sé, immersi in una struggente incapacità di agire.
Dalla fama alla routine, però, il passo è stato spesso breve; e questo modo di leggere Cechov oggi rischia di diventare maniera. Così appare interessante l'operazione condotta dal regista Leonardo Lidi, che presentando giovedì al Festival dei Due Mondi di Spoleto Il gabbiano, ha senza tanti complimenti fatto piazza pulita del suo stereotipato cotè, puntando invece solo sulla nuda concretezza del testo. Tutto si svolge come fossimo in una sala prove: sparita l'originale, malinconica atmosfera lacustre, restano solo le spoglie pareti del palcoscenico; gli attori non escono mai di scena ma, seduti in fondo, assistono anche loro allo spettacolo; mancano perfino gli oggetti di scena, sostituiti da altri del tutto casuali, come appunto accade durante le prove. Il risultato dovrebbe essere come di fatto è- quello di esaltare soprattutto la parola.
Recitata anche questa in modo diretto, scabro, perfino sciatto: niente mollezze o abbandoni, mitiche pause cechoviane addio. E ritmo serratissimo, del resto necessario per compattare i quattro atti originali in due ore ininterrotte di spettacolo. I vantaggi ci sono, e saltano fuori evidenti: questo Gabbiano è uno spettacolo moderno, che sottolinea la sorprendente attualità del testo e ne riscopre perfino la famigerata ironia, che l' interpretazione tradizionale di Cechov semplicemente ignora. Ma scelte tanto radicali presentano anche gravi rischi; e proprio in questo diverso uso della parola. Asciuga Cechov di tutta la sua magia, e tanta secchezza rischia di diventare aridità.
La recitazione degli interpreti del Gabbiano firmato Lidi, priva di echi o risonanze, tutta sussurrata e sporcata, come si fa al cinema più che in teatro, rischia ad ogni passo di immiserire la poesia, di rimpicciolire il fascino del capolavoro. Su questo terreno insidioso, dunque, alcuni interpreti si muovono assai bene, mantenendo la ricchezza poetica originale ed evitandone la banalizzazione: soprattutto il fatuo ed egoista Trigorin di Massimiliano Speziani, l'Arkadina ruvida e nevrotica disegnata da Francesca Mazza, e la Masa vibrante di ostinazione ed amarezza offerta da Ilaria Falini.
Gli altri appaiono onestamente funzionali, ma tesi come sono a normalizzare a tutti i costi Cechov spesso appiattiscono, stropicciano, mormorano, tirano via, e a volte risultano addirittura inudibili, nonostante usino dei microfoni. Possibile che anche nella prosa non si possa più fare a meno di microfonare gli attori? E perfino in uno spazio minuscolo come il Caio Melisso?
Inesplicabile infine, e questo sì che è manierismo, la scelta di far interpretare ad un'attrice il ruolo maschile dello zio Sorin.
La regia di Lidi si è presumibilmente concentrata soprattutto sugli attori, perché per il resto si accontenta di accenni, proprio come in sala prove, salvo poi lanciarsi in un paio di trovate finali piuttosto evitabili. Il pubblico mostra comunque di gradire, e infine applaude a lungo questo Cechov così poco cechoviano.
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