Gottfried Benn: lo stile può "guarire" la verità

La ricetta del medico scrittore: nel mondo del relativismo, l'unica certezza è l'arte

Gottfried Benn: lo stile può "guarire" la verità

Nel 1958 l'autorevole germanista Albrecht Schöne, in un suo saggio sulla secolarizzazione nella cultura tedesca, osservava che più di 400 scrittori erano stati pastori o figli di pastori. Un solo nome: Nietzsche, cui possiamo aggiungere quello di Gottfried Benn (1886-1956). Anche lui di origini umili, era cresciuto nell'ambiente austero, rigido, ma colto e musicale della parrocchia luterana, in una famiglia povera, ma ricca di spiritualità e di figli. Trascorse l'infanzia nel Brandenburgo tra boschi, stagni, paludi, piccoli borghi addormentati e sullo sfondo Berlino, metropoli d'asfalto, di caserme, industrie, università, accademie, biblioteche. Benn, dopo due semestri di teologia, riuscì a imporre al padre la sua vocazione: studiare medicina. Passò dalla salute delle anime alla cura dei corpi. E prese sul serio la professione che esercitò per tutta la vita, in un modesto studio (che fungeva anche da abitazione) a Berlino, che divenne la sua città. Praticò come dermatologo (specialista in malattie veneree) e si profilò con apprezzate pubblicazioni scientifiche. Dunque scienziato, ma anche scrittore.

Ecco la doppia vita del dottor Benn, che ne scrive in quello che è il suo libro più intrigante e decisivo, la chiave della vita e dell'opera, Doppia vita, ora finalmente ristampato da Adelphi (pagg. 189, euro 19) in una nuova traduzione a cura di Amelia Valtolina, benniana di fama internazionale, con una prefazione intrigante di Roberto Calasso (il suo ultimo scritto).

Quando Benn chiudeva lo studio, cominciava l'altra attività, quella della scrittura, che si avvolgeva con l'esperienza del patologo e s'inabissava nell'osservazione della fragilità della fisicità. Il maestro per sempre è stato Nietzsche, ché l'opera di Benn è una costante variazione del grande tema del nichilismo del maestro: la verità platonica, cristiana, marxiana non esiste: «Basta con la verità! Venga la forma, venga l'effimero (...). Ha inizio il mondo della forma e della relazione, ha inizio il mondo dell'espressione». Il percorso è chiaro: nel mondo della relatività si è smarrita la fede nell'assoluto, si è perso il centro, le tradizioni religiose, ideologiche si dissolvono. Che resta? La straordinaria, misteriosa capacità umana di creare stile, forma, arte: «Lo stile è superiore alla verità, reca in sé la prova dell'esistenza. Forma: in essa è la lontananza, in essa è la durata».

Il giovane dottore nel 1912 aveva pubblicato un libretto di poesie, Morgue, che aveva creato scandalo per la durezza con cui, abbattuti i fragili e logori idoli del decadentismo, affiorava una lirica terribile, abrasiva, che capovolgeva la ritualità dell'ecce homo, squarciando ogni velo, indicando l'ultima realtà: l'obitorio. Benn conduce la sua doppia vita: medico ed esponente di punta dell'espressionismo. Non è casuale che tale itinerario sia percorso proprio da un patologo che ogni giorno si confrontava con l'effimero della vita con una straordinaria lucidità: «Il sentimento di questa relativizzazione, del carattere relativizzabile del pensiero europeo, la perdita del certo e dell'assoluto del pensiero europeo è lo stigma attuale della nostra civiltà».

L'altra conseguenza è la lucida differenziazione tra «portatori d'arte» e «portatori di cultura». La scelta per la lirica che diventa obbligata per il poeta, che nella sua ricerca rifiuta qualsiasi palcoscenico culturale. Lo stile, la forma diventa una ascesi (non a caso è nato in una parrocchia luterana): «Non sono mai andato a una festa (...). Esperienze, esperienze vere, che si formavano a partire dall'intimo, solo mediante un lungo lavoro, solo mediante un'inflessibile e solitaria disciplina». Questa sua sobrietà luterana lo allontanò da premi letterari, riconoscimenti, giochi mondani, con un'asprezza e un risentimento sociale che per qualche mese gli fece credere che la parola d'ordine «Germania, svegliati!» segnasse l'alba di una nuova età e di una nuova giovinezza della nazione.

Ma l'errore gli fu fatale. Lui, che non aveva mai aderito a nessun partito, che non aveva mai frequentato alcun circolo politico, fu attaccato dalla primavera del 1933 dagli emigrati. Nel libro Benn riporta una bellissima lettera di Klaus Mann che lo esortava ad aprire gli occhi sui suoi squallidi sodali. E Benn lo dovette comprendere rapidamente: dal 1934 fu oggetto di una abietta campagna di denigrazione da parte della propaganda nazista. Venne persino accusato di essere un ebreo, come provava il suo cognome Benn ovvero Benjamin... Si dovette difendere e alla fine, lui che non voleva lasciare la terra tedesca, s'inventò la sua emigrazione: tornare nell'esercito (ancora indipendente dalla dittatura) come medico militare: «Fu allora che coniai quel motto (...): L'esercito è la forma aristocratica dell'emigrazione».

Molti erano partiti, come i Mann, altri si barcamenavano nella Emigrazione Interna, spesso compromissoria.

Lui (come Jünger) scelse l'esercito: «chiusi in sé stessi, per vegliare su sé stessi». Dopo la guerra, fu attaccato come nazista e così si decise a scrivere Doppia vita, testimonianza preziosa, manuale d'arte, poetica e insieme breviario di sopravvivenza, ancora attuale.

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