Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio

C'è una terza via fra la vulgata neoborbonica e quella neosabauda? Eugenio Di Rienzo prova a percorrerla

Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio

Migliaia di uomini dispiegati sul territorio, scontri feroci, villaggi distrutti, una ferita sull'appena raggiunta unità d'Italia che si è cercato di coprire al più presto col belletto della retorica e l'oblio storiografico. Se ci si prende la briga di guardare cosa si nasconde sotto la frettolosa formula del «brigantaggio» post-unitario si va a sbattere su un fenomeno variegato e scomodo che solo una lettura miope potrebbe ridurre alla vulgata di una criminalità comune nata dalla povertà atavica delle regioni meridionali che solo la caduta dei Borbone di Napoli ha superficialmente tinto di moventi politici.

Eppure la storiografia, spesso, è scivolata lontana dal tema o lo ha biecamente piegato a criteri ideologici di contrapposizione tra «sudisti» e «nordisti». Ecco che allora risulta utilissimo il breve saggio da poco pubblicato da Eugenio Di Rienzo: Il Brigantaggio post-unitario come problema storiografico (D'amico editore, pagg. 122, euro 14).

L'ordinario di Storia Moderna dell'università di Roma si dedica con grande attenzione alle fonti coeve e mette subito in luce come idealtipi del brigante buono o al contrario riduzionismi criminalizzanti si sono sedimentati nel tempo. Molti dei contemporanei avevano le idee più chiare.

Ad esempio negli scritti del generale Giuseppe Govone, uno dei maggiori artefici della repressione del banditismo politico, nelle sue memorie sul brigantaggio scriveva già nel 1863: «È vero che il partito che chiamasi liberale attribuiva tutte le cause del brigantaggio ai Comitati borbonici... Ma successivamente conobbi personalmente parecchie delle persone che erano state denunziate e vidi l'assurdità delle accuse, e quanta stima meritassero, invece, parecchie delle famiglie accusate... Famiglie che, in generale, erano tra le più ricche e rispettabili. Venne poi la rivoluzione del 1860. E chi era sotto, e covava invidia e odio, fece lega con la rivoluzione, e non tardò a rovesciare chi, in addietro, stava sopra. Alla rivoluzione i nuovi potenti si dissero liberali, e chiamarono borbonici gli altri». Insomma lo stesso Govone, il braccio duro della repressione, aveva chiaro in testa di essere stato trascinato in uno scontro dove nel vuoto del cambio di regime non tutto era limpido, anzi.

Non fu il solo militare ad accorgersene. Alessandro Bianco conte di Saint-Jorioz -autore del volume Il brigantaggio alla frontiera pontificia del 1864- notava come Govone che fosse in corso una guerra di potere dove molti filopiemontesi avevano tutt'altro che comportamenti specchiati: «La plebe è manomessa in ogni maniera dai liberali, arrestata senza colpa e senza prove o indizi di colpevolezza, taglieggiata, malmenata, torturata e derubata con usure spaventevoli e scellerate, di cui non vi è memoria nel precedente reggimento dei Borbone».

Anche al braccio duro della repressione era quindi chiaro quanto non stesse funzionando nella gestione del Sud. Quanto il tutto non fosse semplicemente riconducibile ad arretratezza culturale o «all'oro dei Borbone» utilizzato per sobillare i vecchi sudditi.

E non solo guerra per la «roba». Le fonti d'epoca consentono di ricostruire anche il forte attaccamento che molti sudditi sentivano verso la «Patria napoletana». Sentimento che un'unificazione senza alcuna traccia di federalismo ferì in pieno. Ne fu testimone il duca di Maddaloni che pure aderì con entusiasmo, all'inizio, al nuovo regime entrando anche in parlamento: «Non vi ha solo borbonici a Napoli, vi ha piuttosto autonomisti e questi bisognava convertire perché, se ciò fosse stato, li avreste visti in un subito tutti aggrapparsi al governo piemontese». E invece «la polvere e il piombo piemontesi hanno il colore stesso e l'odore della polvere e del piombo borbonico». Quel federalismo mancato che tanti danni duraturi ha prodotto in Lombardia e Veneto tanti altri meno raccontati ne potrebbe aver prodotto a Sud. A partire proprio dalla spinta alla ribellione brigantesca.

Ma questi sono solo alcuni degli spunti forniti da Eugenio Di Rienzo in questo volume che presenta molti altri documenti pressoché inediti e ripropone in appendice integralmente uno degli opuscoli più interessanti scritti

in quegli anni: Analisi politica del brigantaggio attuale nell'Italia meridionale di Tommaso Cava de Gueva (pubblicato nel 1865).

Davvero uno strumento utile per parlare di «brigantaggio» post-unitario sine ira et studio.

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