The Hateful Eight, il racconto tarantino della Storia

Tarantino divide, Tarantino litiga, Tarantino violenta (“Because it’s so much fun!”), ma Tarantino fa anche film che a loro volta dividono, litigano e violentano (vero Goffredo?). Insomma, don’t mess with Quentin.

Tarantino ha sempre diviso, litigato e violentato in ogni suo film, ma dagli ultimi due film (Inglorious Bastards, Django Unchained) fino, appunto, a The Hateful Eight lo sta facendo in maniera diversa. Perché? Innanzitutto, come una novella Laura Palmer al contrario, Tarantino aveva lanciato la sua profezia “non tornerò più dopo il mio decimo film”. Questa profezia ci serve più nel suo significato numerologico che nella sua veridicità (a cui crediamo ben poco). Infatti, decidendo di scandire la proprio filmografia in decimi, Tarantino ci suggerisce una sorta di divisione enumerativa in sottocapitoli della propria carriera in cui il numero 5, Grindhouse/Death Proof e 6, Inglorious Bastards, segnano rispettivamente l’apice della prima metà e l’alba della seconda che The Hateful Eight raggiunge, come vedremo, una certa maturità. Questo spartiacque divisorio potrebbe (e forse lo è) sembrare arbitrario, artificioso e forzato, se i primi tre film della seconda cinquina della filmografia non segnassero un trittico, poeticamente coeso, che rinnova ed amplia i temi e le forme che Tarantino aveva seminato nella prima metà della sua carriera. Temi e forme che in Inglorious Bastards, Django Unchained e The Hateful Eight si arzigogolano e sviluppano, come fili intorno ad un fuso, sull’asse della Storia (tarantinana, of course). “Ma come?”, direbbero alcuni stupiti (tra cui probabilmente i Wu Ming del New Italian Epic), “Quentin Tarantino, il regista simbolo della fredda ironia distaccata, autocompiaciuta ed un po’ bambinesca post-moderna, filma la Storia? E con la s maiuscola per giunta?”. A quanto pare si.

Come hanno scritto (competentemente) Pietro Bianchi e Marco Grosoli (qui): “di Tarantino si è sedimentata nel corso degli anni un’immagine inoffensiva, debole, disimpegnata e sostanzialmente conservatrice”. Un’immagine che, se poteva essere vagamente contemplata guardando i primi cinque film del regista americano, rimane inevitabilmente sconfessata dagli ultimi tre e da The Hateful Eight in particolare. Infatti, se già in Inglorious Bastards si sviluppava un paradosso storiografico, bruciando Hitler dentro al cinema e, parallelamente, in Django Unchained si produceva un’iperbole storiografica (la liberazione degli afroamericani personificata dai merletti, dai colori, dal costante sopra-le-righe di Jamie Foxx e dall’iper-citazionismo registico di Tarantino); in The Hateful Eight questa tendenza tarantiniana recente a (ri-)scrivere la Storia si sveste dei suoi abiti iperbolici o paradossali, dei due film precedenti, per comporre una scrittura della Storia che rifletta sulla natura della storiografia stessa, nuda e cruda, e sanguinolenta. Non è un caso che per operare questa scelta Tarantino abbia fatto ricorso ad un apparato tecnico (uso del formato 70mm), formale (costruire un Western protoripico) e contenutistico (selezionare come periodo storico da trattare il post-guerra di Secessione, la nascita della nazione statunitense) rigoroso, classicista proprio come uno storiografo che si approccia alla disamina delle fonti. Così facendo Tarantino, rispetto ai due film precedenti, compone un film più lento, meno ritmato (anche nel montaggio) e che non gioca sullo stupore dello spettatore come la stessa linearità della trama dimostra. Al contrario, The Hateful Eight incede ad un passo registico e narrativo che non si piega mai ad accelerazione (neanche nel finale pistolero) che potrebbe portarlo verso il paradosso di Inglorious o l’iperbole di Django, concentrandosi sulla verbosa e dialogata creazione di una tensione costante. Questa ascesa lenta, ma inesorabile verso lo scontro finale assolve tre compiti fondamentali, di diversa stratificazione: quello epidermico in cui si racconta la storia puntuale che coinvolge gli otto personaggi e la loro violenta convivenza all’interno della Minnie’s Haberdashery (che avvicina il film a Reservoir Dogs, specialmente nelle seconda parte); quello storico in cui la storia degli otto diventa strumento metonimico che trasforma la storia particolare in storia collettiva (lo scontro razziale, politico, geografico e sociale che segnò la nascita degli USA); infine, quello storiografico, che per l’appunto caratterizza The Hateful Eight, in cui non si espone semplicemente la storia nel suo divenire episodico (come nel secondo livello), ma la Storia in quanto scrittura di sé stessa, in quanto documentazione, archiviazione, istituzione e memoria. Il livello puramente storiografico, senza aggettivi di sorta, rivolge, quindi, la sua attenzione verso la qualità, la forma, l’istinto della Storia, piuttosto che verso i suoi contenuti. Che sia la storia della faticosa unificazione americana rimane, quindi, contingente in questo terzo livello (non ovviamente nei primi due), potremmo, infatti, parlare della rivoluzione francese o dell’unità italiana e poco cambierebbe. Che, invece, la Storia, quella che diventa memoria collettiva, documento e archivio, si scriva attraverso la menzogna, l’affabulazione, la mistificazione e il plagio, ciò condiziona il livello storiografico nel film di Tarantino. Di conseguenza, nel film si sparpagliano documenti contraffatti, tradimenti, travestimenti e incredibili racconti di cui la lettera retta dalla mano insanguinata di Major Marquis Warren diventa l’exemplum per eccellenza in quanto talmente falsificata dal sembrare reale fino, inevitabilmente, a diventarlo.

Lo stesso processo che sembra sottintendere il passaggio dalla storia vissuta alla Storia, in cui il falso diventando verosimile viene trascritto come Verità e che riecheggia nella natura del medium cinematografico stesso, in cui il sogno e la menzogna diventano verità “osservabili”. Alla fin fine, infatti, come lo stesso Tarantino ci suggerisce, The Hateful Eight non è altro che un gelato al cioccolato cosparso di sciroppo di lampone.

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