Come cambia la comicità?
«Col cronometro. Una volta, i monologhi di Walter Chiari duravano 14 minuti. Quelli del Trio non superavano gli 8. Oggi, in appena cinque, quelli di Zelig infilano tre comici diversi». Signore dell'ironia in souplesse, Tullio Solenghi non va mai di fretta. Ci ha messo un po' anche ad accettare di partecipare come concorrente (al fianco - fra gli altri - di Vittoria Belvedere, Enrico Papi, Sergio Assisi, Lorenza Mario e Manlio Dovì) alla sesta edizione di Tale e Quale Show, da domani nuovamente su Raiuno.
Solenghi, ma chi gliel'ha fatto fare?
«Non me ne parli. Non ci dormo la notte. Con paragone olimpionico direi che imitare e cantare assieme è come tuffarsi con doppio salto mortale: coefficiente di difficoltà 8,8. Come andrà? Speriamo di non dare panciate».
Quello di Carlo Conti è, oltre tutto, uno show faticosissimo. Reggerà l'urto?
«Ah: io ai tre giurati che quest'anno saranno, oltre a Loretta Goggi, anche Enrico Montesano e Claudio Amendola - l'ho detto subito. Sono a un anno dalla pensione. Versatemi lo stesso i contributi. E poi ho messo le mani avanti: fatemi imitare tutti tranne i politici. Ci rimetterei in salute».
Inutile chiederle di chi farà l'imitazione.
«Inutile. Posso dirle però chi vorrei e mai potrei. Pavarotti. Il che fornisce una misura della mie ambizioni».
Come si trova in mezzo a tanti colleghi più giovani? E che ne pensa dei comici della nuova generazione?
«Molta acqua è passata, sotto i ponti della comicità. Noi coltivavamo il surreale, l'assurdo; ci ispiravamo a Campanile, a Ionesco. Oggi tutto dev'essere mordi e fuggi. O fai ridere subito, o arrivederci e grazie. Così, per dare subito la zampata, i giovani ricorrono alla parolaccia gratuita. È il segno dei tempi. E pensare che l'unica parolina un po' sboccata che ci siamo concessi noi del Trio, in trent'anni di gag, è stata bella figheira».
E i nuovi comici le piacciono?
«Se lo dico sembro supponente? Non mi divertono un granchè. In tv, invece di Zelig o Made in Sud, preferisco seguire lo sport. O un bel documentario, và. Ecco, lo sapevo: era meglio se non lo dicevo».
Un mese e mezzo appena dopo la sua scomparsa come pensa ad Anna Marchesini?
«È difficile vivere senza un pezzo della tua vita. Anna era per me e Massimo un referente continuo. Non solo ci sottoponevamo a vicenda idee e progetti di lavoro; ci sentivamo sempre al telefono, anche solo per raccontarci cosa facevano i rispettivi figli. E lei aveva sempre la risposta illuminante, la risata giusta».
Come spiega che la gente ha sentito la sua partenza come quella di una di casa?
«I grandi comici sono benefattori dell'umanità. Per Totò bisognerebbe avviare una causa di canonizzazione, come per padre Pio. Quante volte noi del Trio ci siamo sentiti dire: Le ultime risate di mio marito le devo a voi. Oppure: Se papà ha potuto resistere in ospedale è grazie a voi. A pensarci, mi vengono i brividi».
L'eredità che Anna le ha lasciato?
«Il rigore creativo. Non trattare mai con leggerezza un mestiere solo apparentemente leggero».
Il Trio non fa solo ridere. E riuscito a diventare anche un fenomeno cult. Come ci siete riusciti?
«Questo tipo di conseguenze non si possono programmare. Però credo dipenda dal fatto che, pur essendo la misura la nostra vocazione (in scena cercavamo di evitare anche la minima sbavatura) alla fine risultavamo trasversali. Insomma: piacevamo al burino come al signore. Ai nostri spettacoli venivano i genitori, i figli e i nonni. E ridevano tutti allo stesso modo. Come essere di nicchia e nazionalpopolari assieme, insomma».
Sempre popolare ma sempre diverso dagli altri, oggi come fa ridere Tullio Solenghi?
«Col teatro.
A marzo io e Massimo Dapporto debutteremo in Quei due (il sottoscala), di Charles Dyer. La storia di due barbieri omosessuali e un po' agee, nella Londra degli anni '60. Una sorta di Vizietto della terza età. Come dire: malinconia e comicità in dosi esatte».
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