Al Lido i fischi non annacquano il tuffo di Luca Guadagnino

Sonori dissensi piovuti sul remake di «La piscina» con Tilda Swinton e Matthias Schoenaerts. Il regista: «Ho indagato il concetto di desiderio»

Al Lido i fischi non annacquano il tuffo di Luca Guadagnino

da Venezia

A Luca Guadagnino, il regista di A Bigger Splash , seconda opera italiana in concorso a Venezia 72, il film da cui ha tratto questo remake non è mai piaciuto: «Quando il produttore mi chiese di dirigere un rifacimento di La piscina di Jacques Deray, la prima volta risposi di no. Perché io sono un cinefilo e quel regista non era per me così significativo. Poi alla fine mi sono accorto che indagare come si esprime il concetto di desiderio tra questi personaggi fosse molto interessante». Ecco dunque al posto di Romy Schneider e Alain Delon, l'algida - ma qui molto eclettica sensualmente - Tilda Swinton nei panni di una leggenda del rock e il fiammingo Matthias Schoenaerts in quelli del suo compagno.

D'estate, sull'isola di Pantelleria in un dammuso di lusso, i due si godono un periodo di riposo anche per le corde vocali della cantante che è in una fase senza voce. A sorpresa li viene a trovare l'esuberante Harry (uno strepitoso Ralph Fiennes), produttore discografico anche dei Rolling Stones, nonché suo ex, insieme alla figlia Penelope, interpretata dalla conturbante Dakota Johnson, la figlia di Melanie Griffith e Don Johnson che ha girato il film, dove appare nuda e, dice, «senza imbarazzi», ancora prima di Cinquanta sfumature di grigio . La convivenza tra i quattro viene subito sconvolta dalle leggi del desiderio che fanno affiorare vecchi e nuovi amori, fino al momento in cui la grande piscina sarà teatro di un omicidio. A quel punto il film, da apparente spensierata commedia brillante alla Feydeau, si trasforma in un thriller con le indagini affidate sotto la pioggia al curioso maresciallo Corrado Guzzanti che metterà ancora più a nudo le anime di questi stranieri in un'isola di frontiera nel mezzo del Mediterraneo, teatro anche degli sbarchi dei migranti. Parola, quest'ultima, che non piace assolutamente a Tilda Swinton la quale in conferenza stampa ha gridato: «Basta! Non sono migranti o immigrati, sono rifugiati di guerra!».

Definizioni a parte, il bel film di Guadagnino arriva nel mezzo del concorso del festival di Venezia come un corpo alieno, diverso da tutte le altre opere, libero e pieno di vitalità con la sua originale idea di cinema (come quella del suo amato Gus Van Sant, altro regista che si è cimentato in un remake difficile come quello di Psycho ) e di linguaggio che piano piano costruisce un dramma in cui però c'è la farsa come nel Falstaff di Verdi, la cui musica irrompe nel film insieme a brani rock. Un film che lavora sui corpi degli attori prima ancora che sui personaggi fino a esprimere, sintetizza il regista, «la concentrazione delle politiche del desiderio, racchiuse verso la deflagrazione finale».

Ma evidentemente tutto questo non è bastato al film, perché alla fine della proiezione stampa sono piovuti incomprensibili fischi e pochi applausi: «È nella natura dei festival, la moltiplicazione delle opinioni si esprime come ognuno vuole», dice in maniera diplomatica il regista che nel 2009 aveva portato sempre qui al Lido, ma nella sezione «Orizzonti», Io sono l'amore , non ben accolto da una parte della critica nostrana ma diventato un caso cinematografico all'estero. Guadagnino, il quale ama circondarsi dello stesso gruppo di collaboratori, dal direttore della fotografia Yorick Le Saux al montatore Walter Fasano, ancora una volta ha scelto come interprete Tilda Swinton che ha suggerito una delle soluzioni portanti del film: «L'idea di una rockstar che non può parlare - dice l'attrice - è stata mia.

E l'ho pensata sia perché avevo perso da poco mia madre e non avevo voglia di parlare, sia perché era interessante vedere come il mio personaggio doveva lottare nel film per farsi capire». Speriamo che il messaggio arrivi forte e chiaro anche al pubblico che potrà vedere il film al cinema dal 26 novembre.

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