È uno dei più fertili registi italiani. Conosciuto per storie imbevute di nostalgia, di provincia (soprattutto emiliana) e di memoria contadina, ma anche per la capacità di costruire trame orrorifiche, Pupi Avati pubblica adesso il romanzo L'archivio del Diavolo (Solferino, pagg. 272, euro 16), sèguito de Il Signor Diavolo, uscito nel 2018 e diventato un film omonimo l'anno scorso. Il suo è un genere, definito «gotico padano», che si svelò fin dal 1976 nel film La casa dalle finestre che ridono. Questa è la storia, ambientata nel 1953 fra Venezia e la Laguna, di un suicidio-omicidio, dell'odio fra un prete di poca fede e un laido Questore di Venezia, di due esseri umani murati in una cripta. La trama è fitta, il libro avvince. Ne parliamo con l'autore.
Lei appare sempre più impegnato nel trattare temi misteriosi, sacrali, con il Diavolo di mezzo
«In prossimità dei titoli di coda della mia vita ho avvertito la necessità di rendicontare la presenza del Male, e del fatto che ci sono azioni giuste e azioni malvagie, non c'è solo quella cosa intermedia e grigia per la quale ha successo chi è numericamente valutato attraverso elezioni politiche o rilevazioni Auditel. Sono risalito agli archetipi della mia vita, perciò agli anni Cinquanta, perché il presente mi sfugge, lo trovo indecifrabile, più grande di me, preferisco quegli anni rivisti attraverso l'esperienza. Lo dico con rammarico. Scusi se divago, ma ieri ho ricevuto una telefonata per una proposta commerciale e la signora del call center mi ha detto che non poteva parlare con me, perché sono del 1938, e lei può parlare solo con persone nate dopo il 1942. Mi considerava demente e intellettualmente non attendibile. Voleva parlare con mia figlia o mio figlio. Nelle culture classiche le persone anziane venivano onorate, oggi se uno è disoccupato a cinquant'anni non può presentarsi da nessuna parte».
Lei è tutt'altro che disoccupato.
«Io a 82 anni ho un livello di creatività inalterato. Ho appena finito di girare un film tratto dal libro di Nino Sgarbi, padre dei fratelli Sgarbi, Lei mi parla ancora. Storia di un matrimonio durato 65 anni e dell'unione come qualcosa di sacrale, non anacronistica, come invece mi dissero alla Rai quando andai a proporre il film. Io sono sposato con la stessa donna da 55 anni e la considero una delle scelte più giuste della mia vita. Ho di fianco una persona che ha negli occhi l'hard disk con tutti i file della mia vita».
Una volta si usava.
«Si dovrebbe riusare. Da che cosa è dipeso il fatto che non si usa più? Dalle mode e dalle comodità, da scorciatoie che hanno portato al disfacimento della famiglia, alla deresponsabilizzazione dei ruoli genitoriali. Non voglio negare opportunità alle donne, ma le donne dovrebbero rivendicare di essere diverse dagli uomini. Le donne sono nate per dare, gli uomini sono nati per prendere, è ineluttabilmente così».
E il Diavolo? I suoi personaggi sembrano tutti toccati dal Maligno
«Lo sono. C'è un elemento autobiografico che non posso rivelare, però parlo di cose, temi, intrecci che conosco. La mia vita ha incontrato anche momenti di opacità. Ho commesso atti gravissimi di cui mi vergogno. In genere il male coincide con i momenti di potere. Il potere suggerisce il male. Commettere il male rassicura sul proprio potere. E se uno gioca alla regola non può accedere al potere, né ai grandi patrimoni».
C'è un personaggio positivo, Malchionda, un Sostituto procuratore a Venezia
«Sarà protagonista della vicenda conclusiva di questa saga del male, dedicata alla mia terra».
C'è una sfumatura di bene anche nei personaggi più efferati?
«Non è un romanzo che punta solo il dito, ma si guarda allo specchio, cerca le ragioni per cui uno diventa quello che è»
Che cosa ci salva eventualmente?
«Credere ostinatamente al fatto che siamo i prescelti, come nella parabola della vigna: quelli che vengono chiamati per ultimi vengono pagati come quelli che hanno lavorato tutta la giornata. Io mi considero così: ho potuto fare cinquanta film. Perché altri colleghi neanche uno, o uno al massimo?».
Perché lei lavorava di più o aveva più talento?
«No, perché ho creduto di essere amato, me ne sono convinto e la vita mi ha ripagato. È un convincimento che viene a mancare nel presente. Io faccio corsi e workshop di recitazione. Incontro molti giovani. Fanno sacrifici, ma non sono del tutto convinti. Lo fanno per ritardare il problema di affrontare la vita di petto. Al primo inciampo rinunciano. Io sono sempre stato convinto che qualcosa di straordinario mi attendesse. Non è ancora successo, ma sono convinto che prima o poi capiterà».
Quando uno si accorge che succede?
«Non lo so perché non è successo».
Il libro parte da dove finisce il precedente.
«Avevo lasciato un poveraccio imprigionato in una cripta. Poi avevo questa fissazione per le allucinazioni ipnagogiche, essere visitato da immagini. Io mi considero normale, ma credo a questi incontri con l'ignoto, il giacimento dei ricordi, contatti telepatici C'entra la cultura contadina di cui sono intriso, sono nato e cresciuto nel cattolicesimo preconciliare».
Come ha fatto a tenere insieme tutto?
«L'ho fatto diventare graficamente un grande foglio dove si intrecciavano le storie. Con delle coincidenze, come Gogol e Venezia».
A proposito, perché i riferimenti a Gogol?
«Lo sentivo assonante con quella sepoltura. Mi piace aver scritto un romanzo intricato, d'altra parte di romanzi semplici dove si racconta di lui, di lei e dell'amico, ne son piene le librerie. Questo invece è un romanzo complesso, confida nell'impegno del lettore».
Quanto ci mette della sua tecnica cinematografica, il montaggio per esempio?
«Mi pongo il problema di sostenere sempre l'attenzione. Se cade, affido il testimone a un altro personaggio. Mi piace il montaggio alternato».
Quanto al terrore di essere sepolti vivi?
«Gogol lo aveva. C'è una vasta letteratura nell'Ottocento. Mi ha sempre affascinato».
In epigrafe ci sono tre frasi di pazienti del manicomio di Bologna, nel 1926, fra cui «Mi piacerebbe svegliarmi già morto».
«È la pagina di cui vado più orgoglioso. Ma non sono dei matti. Le ho pensate io».
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