I primi astrattisti? Erano donne, guidate dagli spiriti

Tra occultismo e teosofia, le radici dell'astrazione sono al femminile

Bilbao. Il sonno della ragione genera mostre: ogni anno migliaia di esposizioni servono a gratificare, spesso solo in termini di lucro, l'artista, il gallerista, il pubblico mass market. Raramente ci sono mostre a cui si può attribuire un carattere scientifico. È il caso di Elles font l'abstraction / Women in abstraction prodotta dal Centre Pompidou di Parigi in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao (nella capitale basca fino al 27 febbraio 2022), a cura di Christine Macel e Karolina Lewandowska, in cui sono esposte 500 opere di oltre 100 artiste che si sono applicate all'astrazione.

La qualità non sta solo nella vastità dei materiali e nella loro significanza (raccolti in un monumentale catalogo), e tanto meno nella questione gender, pur avendo deciso di tracciare una storia dell'astrattismo interamente al femminile e per questo proponendo figure note e meno note, provenienti da ogni parte del mondo. La novità che rende questa mostra epocale è la retrodatazione di una cinquantina di anni della nascita dell'astrazione, rispetto a quanto pedissequamente riportano i libri di testo, attribuendone la fondazione e concettualizzazione a Wilhelm Worringer e poi a Wassily Kandinsky nel 1910.

Grazie all'acribia con cui da anni Christine Macel studia la pratica, d'ora in avanti potremo dare per assodato che una serie di donne, legate dapprima allo spiritismo e poi alla teosofia, cominciarono a dipingere coscientemente in modo astratto a partire dal 1860; per prima Georgiana Houghton, allieva della famosa medium Mrs Marshall, che produsse una serie di opere esposte a Londra nel 1871 e che, apparentemente, sembrano frutto di una sorta di automatismo psichico, o di una scrittura dettata dagli spiriti che ella stessa definiva «amici invisibili», ma che ad un'analisi approfondita, suggerisce la Macel, appaiono espressione di una puntigliosa volontà segnica di fare arte. E che dire della svedese Hilma af Klint: anch'essa dipinse enormi quadri in stile geometrico comandata da esseri superiori, non espose mai le proprie opere astratte e nel testamento chiese agli eredi che non fossero rivelate per venti anni, perché solo allora sarebbero state capite. O ancora, Olga Fröbe-Kapteyn che sulla scorta delle dottrine teosofiche si rifugiò ad Ascona, sede di Monte Verità, e nel 1933 fondò il gruppo Eranos, animato da Carl Gustav Jung, lasciandoci una serie di mandala geometrici su fondo oro di rara bellezza che servivano a conciliare la meditazione.

L'emergere dell'astrattismo nel contesto della teosofia non fa che rimarcare lo stretto legame tra questo nuovo tipo di pittura - certamente ispirata alle teorie vitalistiche del filosofo Bergson, ma che ha radici certe nell'occultismo ottocentesco di Madame Blavatsky - e l'ambito della spiritualità: non a caso lo stesso Kandinsky ne teorizza gli esordi con Lo spirituale nell'arte (1910) e sono arcinote le relazioni tra Yves Klein e lo zen, pensando il buddhismo come massima forma di trascendenza, seppur immanente, al quale la pittura può tendere, soprattutto nella sua dimensione astratta; per somma consonanza proprio al Guggenheim di Bilbao è esposto nella collezione permanente uno dei capolavori dell'artista francese, l'immensa tela La Grande Anthropométrie Bleue del 1960, che da sola vale il viaggio, esempio perfetto di quanto una pittura informale, in sublime international klein-blu, paradossalmente piena di figure e cose pur essendo essenzialmente astratta, possa indurre alla meditazione sul pieno e sul vuoto, sull'essere e sul nulla.

La mostra non si limita però solo alla questione aurorale dell'astrazione, ma passa in rassegna la lunga schiatta di artiste che ne hanno perlustrato i confini lungo il Novecento, tra astrattismo geometrico e lirico, informale e plastico, avvicinamenti alle avanguardie coeve, o allontanamenti imprevedibili e legati alla sensibilità femminile, spesso in antitesi o in anticipo rispetto ai colleghi maschi, tra pittura-pittura, scultura, fotografia, danza, performance, credendo che l'astrazione, ricorda la Macel, «è un modo o un metodo, non uno stile o un genere»: stupendi i lavori cubo-futuristi di Olga Rozanova, o quelli suprematisti di Lyubov Popova, quasi meglio di Malevich; ipnotico il video Serpentine dance (1897) di Loïe Fuller, icona della danza moderna; di algido rigore le fotografie che ritraggono Giannina Censi, musa della danza aerofuturista; di notevole impatto le grandi opere dell'americana Helen Frankenthaler o della turca Fahrelnissa Zeid, le composizioni in bianco e nero di Bridget Riley, l'imponente tessuto di Sheila Hicks.

Per quanto riguarda la presenza delle italiane, a parte le celebrate Carla Accardi e

Dadamaino, ci sono alcune chicche e riscoperte: la futurista Regina Cassolo Bracchi e soprattutto Bice Lazzari (1900-1981), figura appartata e solitaria della storia dell'arte, presente con una magnifica tela materica del 1963.

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