da Venezia
«Un proiettile ha trapassato il collo del presidente, un secondo proiettile, letale, gli ha sfracellato la parte destra del cranio. La trentaquattrenne moglie, Jacqueline Kennedy, era seduta al suo fianco». «Al suo fianco». Da queste frasi della famosa commissione Warren che indagò sull'omicidio di Jfk, prende spunto Jackie in concorso alla 73a Mostra del cinema di Venezia, al cinema a gennaio 2017, primo film fuori dal Cile e su una donna di Pablo Larraín, in cui Natalie Portman veste i panni della First Lady nei quattro giorni successivi al terribile assassinio del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti il 22 novembre del 1963. Vita celebre, morte celebre.
E se il lungo applauso che ha accompagnato le proiezioni per la stampa era indirizzato al grande regista cileno, una buona parte del merito va sicuramente all'interpretazione della Portman che ora viene indicata come una possibile candidata non solo alla Coppa Volpi per la migliore interpretazione qui al Lido ma già in corsa per gli Oscar 2017. Merito di un film che è prima di tutto un primo piano su una donna: «Ricordo - dice il regista da record (era in concorso a Cannes nel maggio scorso con Neruda) - il primo giorno in cui giravamo, ho posizionato le macchine da presa e le ho chiesto di avvicinarsi, poi gliel'ho chiesto ancora e poi ancora, e questo è il film. Perché volevo che fosse qualcosa di davvero vicino, intimo, per sentire veramente quello che ha passato lei».
Ed ecco Jacqueline Kennedy poi diventata Onassis - ma questa è un'altra storia - con gli schizzi di sangue del marito sul volto, la corsa verso l'ospedale, la morte, il susseguirsi degli eventi istituzionali, il giuramento immediato del vicepresidente Lyndon B. Johnson, i figli a cui dover dire che il padre non tornerà più a casa «perché è andato a far compagnia al loro fratellino», il ruolo fondamentale del cognato Bob, l'autopsia («Ma chi l'ha deciso?, La legge, signora»), i funerali con lei che scende le scale mano nella mano con i due piccoli bambini, e infine la sepoltura. Sullo sfondo gli accenni alla politica, la Guerra Fredda, il Vietnam («Abbiamo risolto il problema e Johnson si prenderà il merito», ma sappiamo che non è andata esattamente così...)
Pablo Larraín, uno dei maggiori registi contemporanei con un pugno di film alle spalle (Tony Manero, Post Mortem) non mette però in fila questa successione di tragici eventi ma va per frammenti. Come ha sempre fatto nei suoi film ne raffredda la narrazione per cercare di entrare dentro il personaggio che racconta. Ad esempio ricostruendo per filo e per segno, addirittura con macchine da presa dell'epoca, il documento televisivo in bianco e nero in cui Jackie portò gli americani dentro alla «sua» Casa Bianca che aveva arredato e cambiato a immagine e somiglianza dell'immagine del marito con il restauro di tutto ciò che avesse a che fare con Abraham Lincoln. Oppure con la messa in scena della famosa intervista di Jacqueline Kennedy con Theodore White di Life in cui alla fine lui scrive solo e unicamente ciò che lei aveva voluto (vediamo lei correggere direttamente gli appunti del giornalista).
Donna determinata che detta tutte le regole da seguire nelle ore successive al dramma, sembra gentile ma all'improvviso diventa scostante anche con Bob Kennedy che cerca di aiutarla o con il neopresidente Johnson che l'ha resa definitivamente Second Lady. «Ho lavorato molto sulla voce di Jackie - racconta Natalie Portman a cui oggi non dispiacerebbe una donna alla Casa Bianca - che era molto diversa a seconda dei contesti, in pubblico e tra gli amici. Abbiamo ascoltato tantissime registrazioni audio e la cosa mi spaventava perché non mi sono mai creduta una grande imitatrice.
Ne viene fuori una giovane donna che in quelle ore era scioccata, un simbolo per molte persone, una moglie, tradita per giunta, una persona che cerca di capire come andare avanti quando la cosa più importante non è più la scelta della carta da parati. «È tutto qui?» si chiede Jackie pensando alla sua vita con Kennedy.
E le viene in soccorso la leggendaria corte di re Artù che, nel già citato articolo di Life, viene messa in relazione con quella di Kennedy, con il mito di Camelot costruito su una canzone che Jackie ha ascoltato a Broadway con Richard Burton nella parte del re e Julie Andrews in quella di Ginevra: «Sono stati i nostri anni più felici, un barlume fugace di gloria».
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