Ernst Jünger (1895-1998), dopo la sbornia bellica di inizio secolo, diventa il primo implacabile accusatore di un'epoca «che aveva visto nel materiale l'altezza suprema». E così, quando inizia a ritenere troppo pervasiva la corruzione spirituale, accentua un'attitudine aristocratica al ripiegamento interiore e all'isolamento: «Sono in fuga da decenni. Gradualmente ho visto nel motore il mio arcinemico, il compimento dell'orologio meccanico inventato dai monaci medievali mille anni fa». Una pulsione goethiana che lo conduce a leggere «il tutto nel nascosto» e a rincorrere, con eguale slancio, evasione e ritorno: «la fuga ha giocato un certo ruolo nella mia vita», tuttavia «il ritorno è qualcosa di estremamente importante. È probabile che sia un mio tratto conservatore».
La scelta diaristica sposta pertanto l'obiettivo dai racconti di guerra a quelli dei luoghi ciclicamente visitati e alle annotazioni da consumato entomologo. Una scelta che taluni leggono come pilatesca. In realtà, è cifra di un profilo intellettuale e umano che vuole caratterizzarsi nella désinvolture. Alla grancassa politica preferisce infatti l'osservazione di fenomeni minuti, attraverso due prospettive apparentemente discordanti: l'entomologia e i viaggi. In esse trova il senso ultimo del tutto. Sia quando rivolge una scrupolosa attenzione ai fiori o agli insetti, che quando incontra civiltà e luoghi remoti, il suo sguardo stereoscopico oltrepassa i confini riconosciuti. Ce lo racconta Quadrifogli, un testo pubblicato nel 1960 su Antaios e ora riproposto con la curatela di Luca Siniscalco e uno scritto di Marino Freschi dalla casa editrice De Piante. «Il quadrifoglio - scrive Siniscalco - porta fortuna perché è insolito, genera meraviglia discostandosi dalla norma, benché proprio la sua eccezione confermi la validità dell'armonia cosmica». Si tratti di coleotteri o quadrifogli, di un luogo come la Sardegna o di un'isola greca, Jünger ridisegna una immensa mappa spirituale che, come scrive Mario Bosincu nella prefazione a La Grande Madre (Le Lettere), diventa molto più che simbolica nel momento in cui coglie connessioni, caratteri, anima dei luoghi, spirito originario. Quando Jünger entra in contatto con quel sud del mondo che fa fatica ad abbandonarsi al moderno, o quando si intestardisce nello studio minuto di un coleottero, cerca «l'accesso al palazzo dell'essere». E quando, nel 1978, visita la Sardegna ha netta la sensazione di una fuga dalla civiltà tecnologica: «È come se un'esplosione avesse investito il pianeta intero». Ma, nei ritorni successivi sull'isola, è sconvolto da ogni singolo cambiamento.
Gli fa specie anche l'oste che mostra con fierezza il suo frigorifero e gli assicura che le vivande siano «fresche come a San Francisco e in ogni altro luogo del mondo», e che rappresenta «il precursore delle merci prodotte dall'industria per il consumo di massa, che nella loro fattura a buon mercato» potranno essere sempre presenti sull'Isola.
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