"Instagram l'ha inventato Alberti con la prospettiva"

Nel saggio «Figure», il graphic designer racconta meccanismi e problemi pratici delle immagini

"Instagram l'ha inventato Alberti con la prospettiva"

Riccardo Falcinelli è un graphic designer e si vede: il suo Figure (Einaudi, pagg. 522, euro 24) è bellissimo, anche come «oggetto-libro»: testi e decine di riproduzioni, per spiegare «Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram».

Qual è l'obiettivo di Figure?

«È una storia della cultura visuale, che però non racconta i capolavori dell'arte, bensì i problemi pratici legati alla costruzione dell'immagine: le dimensioni, i costi, come venderla, chi la compra...».

L'altra faccia dei capolavori?

«La maggior parte della divulgazione si concentra sui significati, mancava questa parte, secondo me fascinosa, perché ci dà una prospettiva per capire il presente. Raffaello sembra così lontano da noi ma, se lo racconti dal punto di vista pratico, capisci che i problemi che aveva lui sono gli stessi di chi fa una campagna di comunicazione sui social».

Un problema pratico qual è?

«Per esempio, quanto costa dipingere un quadro? Nell'Ottocento, gli impressionisti appartengono tutti a famiglie della buona borghesia. Ed è per risparmiare che si impone il rettangolo come forma nei quadri».

Come è successo?

«Nell'Ottocento i negozi di belle arti vendevano tele già preconfezionate e gli impressionisti le compravano; in questo erano molto simili a noi, non esistevano più le grandi botteghe rinascimentali, Monet era solo nel suo atelier, a casa, e dipingeva. Tra il Ghirlandaio e Monet non cambia solo lo stile, bensì il modo in cui vivono, il budget a disposizione...».

Si può fare un paragone?

«Il Ghirlandaio o Botticelli sono come un kolossal al cinema, Monet è un romanzo».

La prima «rivoluzione» è la prospettiva.

«È il punto di svolta per il mondo che conosciamo oggi: pensiamo a Instagram, l'idea che quello che vediamo sia messo in un rettangolo e poi condiviso con altri la teorizza Leon Battista Alberti».

La prospettiva implica anche un «mirino»?

«Sì. Alberti mette la Madonna al centro del poligono e, così, le immagini diventano cose da guardare con attenzione, non sono più decorazioni o icone sacre per pregare: il mondo moderno nasce con questo guardare».

Che cosa implica?

«Oggi l'uomo della strada fa una foto non per sé, bensì per condividerla con altri. All'epoca di Alberti lo faceva solo l'artista, oggi chiunque lo fa, anche un ragazzino: esiste il pubblico nella nostra testa, quando fotografiamo».

È la prospettiva che ipnotizza, come in Shining?

«Sì, perché rende lo spazio fortemente geometrico. Come nella scena del corridoio, che ci porta quasi a uno stato di trance. Lo sguardo primitivo è più laterale, attento a tutto lo spazio, mentre oggi il nostro sguardo è stretto, mirato, stiamo fissi su un rettangolo - il cellulare - e comunichiamo, e lo dico senza moralismi».

Poi arriva Degas, con le sue ballerine, e «disinquadra». C'è una esigenza di «autenticità»?

«Negli ultimi 150 anni, con l'avvento del pubblico di massa, è fondamentale che le immagini comunichino spontaneità, anche se essa è frutto di uno studio: quindi, mentre prima si privilegiava l'immagine elegante, ora si privilegia quella alla mano».

Quali sono i meccanismi più sfruttati dal cinema?

«I grandi registi hanno studiato moltissimo la pittura, infatti nel cinema ritroviamo numerose scelte barocche, per esempio i respingitori, figure in primo piano sfocate o in controluce, che amplificano la profondità dell'immagine: vengono dal '600, e non c'è serie tv o film di oggi in cui non appaiano».

Sono ormai «acquisiti»?

«Esistono codici e meccanismi che parlano nella società, senza che li conosciamo o li abbiamo studiati, ed è irrilevante se chi li ha utilizzati intendesse farlo: sono depositati nella memoria, attraverso la cultura».

Lei è un po' fissato con Via col vento.

«È un film che ha inventato almeno trenta cose che ritroviamo in tutto il cinema successivo... Su tutto, lo storyboard, che è come una sceneggiatura a fumetti del film finito. Il produttore, David Selznick, lo copiò da Walt Disney, sul set di Biancaneve. Poi le gerarchie fra primo e secondo piano».

Perché lo storyboard è importante?

«Nello storyboard ogni fotogramma è un quadro, e tutto è studiato al millimetro. Un meccanismo cruciale, perché dà una visione d'insieme. Il cinema diventa pittorico per la prima volta: Hitchcock, Kubrick e Spielberg, per esempio, hanno tutti queste caratteristiche. E poi c'è Gustave Doré».

Il cinema è debitore verso Doré?

«Ah sì. Batman, l'Uomo ragno, i videogiochi, le tavole, i cartoni, i film d'azione, Indiana Jones... è tutto Doré. Un grande dimenticato. È l'inventore dell'intrattenimento moderno».

Perché?

«Inventa delle dinamiche nelle immagini per cui il nostro occhio va dove vuole lui, cioè punta al fulcro, una specie di calamita visiva che è usata moltissimo dalla pubblicità. Doré crea un modo per costruire le immagini per il pubblico della società di massa, un pubblico distratto, sempre di corsa».

A che altro si ispira la pubblicità?

«Alle nature morte. Nel '600, il possesso dei beni materiali diventa centrale per la posizione del borghese, e noi viviamo in un mondo simile».

Che cosa serve, oggi, perché un'immagine spicchi?

«È premiato il dire una sola cosa, in modo sintetico ed essenziale. Non è facile».

Quanto conta il meccanismo rispetto al contenuto?

«Per fare arrivare il significato, il meccanismo è tutto. Anche se una grande opera non si risolve nel suo meccanismo».

La cosa più importante per un artista oggi?

«Avere l'abilità di far conoscere quello che si fa, quindi inventare le immagini e anche i modi per farle arrivare al proprio vero pubblico. La competizione è feroce».

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