"Io, da credente per forza ad ateo non praticante"

Il celebre scrittore gallese racconta il proprio rapporto con la religione. Fra imposizioni e scelte razionali

"Io, da credente per forza ad ateo non praticante"

Per concessione dell’editore EDB (Edizioni Dehoniane Bologna) proponiamo un brano da Cattiva fede di Ken Follett (pagg. 80, euro 7,50, testo in italiano e in inglese). È un memoir dello scrittore gallese maestro del giallo, tradotto in tutto il mondo, celebre per i suoi numerosi bestseller come "La cruna dell’ago" e "I pilastri della Terra". Qui si affronta il tema della religione e dei suoi apparati, che il giovane Follett rifiutava e che ora, a 68 anni, quanto meno tollera...

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Da bambino non avevo il permesso di andare al cinema. Ce n'era uno in Cowbridge Road, a Cardiff, non lontano da casa mia, e quasi tutti i ragazzi che conoscevo ci passavano la domenica mattina a guardare film senza pretese, serie con i cowboy e i razzi spaziali, Robin Hood e il cane Lassie. Oggi sono colpito da un lampo d'immedesimazione quando, in Proust, leggo del giovane narratore che scruta con desiderio i manifesti teatrali esposti sulle colonnine pubblicitarie di Parigi. In compenso frequentavo la biblioteca pubblica, che stava nella stessa strada del cinema, un centinaio di metri più in là. È probabile che in questo modo abbia imparato molto di più rispetto ai miei amici che andavano al cinema, ma era un fatto che all'epoca non apprezzavo troppo. Il divieto, al contrario, mi lasciava indignato. Nel nostro ambiente, ci chiamavamo la Congregazione oppure, a volte, la Chiesa di Dio, ma il mondo ci conosceva come i Plymouth Brethren, i Fratelli di Plymouth. Il movimento si era separato dalla Chiesa d'Inghilterra nel XIX secolo. Gruppi di questo genere hanno la stessa natura fissile dei trotzkisti e le divisioni, di conseguenza, si erano susseguite alle divisioni. Ero nato nei Confratelli della Verità Necessaria, che prendevano nome dalla nostra rivista, Needed Truth, «La Verita Necessaria». (...)

Una brutta parola era «piacere». Non si frequentavano teatri, concerti o eventi sportivi. Ricordo ancora di quando mi fu spiegato che era più che giusto andare alla fiera dell'auto per acquistare un pullmino per l'evangelizzazione, ma sarebbe stato sbagliato passare una giornata là dentro solo per ammirare le macchine, perché in quel caso non sarebbe stato altro che «piacere». (...)

Ho vissuto i primi dieci anni della mia vita in Leckwith Avenue, un vicolo cieco di casette a schiera incassate in mezzo a un bivio della linea ferroviaria. In fondo al giardino passavano i binari del ramo principale, quello per Swansea, mentre all'estremità della stradina correva la deviazione per Ninian Park, sede del Cardiff City Football Club (un altro posto che non avevo il permesso di frequentare). Il nostro campo giochi era delimitato dal fronte e dal retro della massicciata, ci avventuravamo tra i binari senza farci caso: a ripensarci adesso, sembra un miracolo che non ci sia mai stato un incidente. La sala degli scout stava proprio in fondo al vicolo cieco. Ero l'unico bambino di tutta la strada a non essere un lupetto. Tutto ciò che facevamo mirava a raggiungere il regno dei Cieli, la nostra vera patria. La musica, però, rappresentava un problema. In senso stretto avremmo dovuto accontentarci dei canti religiosi ma, in quanto gallesi, anche i più devoti tra noi non riuscivano a seguire una dieta musicale troppo rigida. C'era sempre un pianoforte in casa ed entrambi i miei genitori suonavano brani classici e di musica sacra. Alla fine si rammollirono tanto da acquistare un apparecchio radiofonico. Il rock 'n'roll, in ogni caso, restava bandito.

Noi ragazzi non ci mettemmo troppo a sentir odore di ipocrisia.

Non avevo l'anima di un puritano e cominciai a disobbedire non appena fui abbastanza grande da sapermela cavare. Mi piacevano i film, mi piaceva andare a ballare il sabato sera, mi piacevano le sigarette (il tabacco era proibito in quanto concupiscenza della carne). Comprai una chitarra e non la usavo per suonare inni sacri.

Sbarazzarsi dell'aspetto dottrinale era più complicato. Da ragazzino continuavo a credere che le verità della Bibbia andassero prese alla lettera. Tutti, in famiglia, la leggevamo ogni giorno. Seguivo un corso a domicilio che comportava la lettura integrale dei sessantasei libri della Scrittura, senza saltare una riga. Prima di passare al libro successivo, dovevo rispondere a una serie di domande su quello che avevo appena letto. I miei genitori leggevano anche il Times e il Reader's Digest. E fu mio padre a commettere l'errore fatale di ordinare per posta Il grande atlante del Reader's Digest. Leggevo qualsiasi foglio stampato che entrasse in casa (penso che da giovani lo facciano tutti gli scrittori) e, quando mi accomodai davanti all'introduzione dell'atlante, venni a conoscenza della teoria della deriva, secondo la quale i continenti sono come le tessere di un puzzle che lentamente, nel corso di milioni di anni, si allontanano l'una dall'altra. Così, grazie al Reader's Digest, iniziai a mettere in dubbio la Bibbia. (...)

Ero ancora cristiano: un cristiano tormentato. In quel periodo dovevo decidere che cosa studiare all'università. Scelsi filosofia, nella speranza che potesse aiutarmi a superare i miei dubbi sull'esistenza di Dio. Lo fece senz'altro. All'University College di Londra la luce spietata della filosofia del linguaggio prese a splendere sulle idee di Platone, Cartesio, Marx e Wittgenstein. Non si discuteva molto di religione, ma in privato mi misi a esaminare le convinzioni religiose sulla base di criteri logici. Nessun dato di fede superò mai la prova. Al momento della laurea ero diventato ateo. Un ateo arrabbiato. (...)

Dopo che mia moglie Barbara è stata eletta deputata nei laburisti nel distretto di Stevenage, ho iniziato a frequentare le funzioni religiose, come previsto nei doveri del coniuge di un parlamentare britannico, ma mi sono accorto di apprezzarlo, e ho continuato a farlo anche quando non ero obbligato. Adesso mi considero un ateo non praticante. Continuo a non credere in Dio e non faccio mai la comunione. Ma andare in chiesa mi piace. I vespri cantati sono la mia funzione preferita. Oggi sono di nuovo uno che va in chiesa, non regolarmente, ma neppure in modo troppo discontinuo. Perché ci vado? L'architettura, la musica e il senso di condividere qualcosa con chi mi sta accanto: tutto questo conta. Quel che ne deriva, per me, è un sentimento di pace spirituale.

Andare in chiesa consola la mia anima. E, come alla fine sono riuscito a comprendere, questo è esattamente ciò che si suppone debba fare. Quanto tempo ci occorre, spesso, per capire le verità più semplici.

(traduzione di Alessandro Zaccuri)

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