Julius Evola, il razzista (e pittore contestato) che però era antifascista

Era da tempo che non si parlava così tanto - bene, male - di Julius Evola

Julius Evola, il razzista (e pittore contestato) che però era antifascista

Era da tempo che non si parlava così tanto - bene, male - di Julius Evola (1898-1974), il Barone nero, l'apostolo della Tradizione, l'esoterista, il filosofo portato a processo - nel 1951 - con l'accusa di essere l'ideologo dei Far, i Fasci di azione rivoluzionaria, e ancora: il polemista, il Maestro, lo scrittore di Cavalcare la tigre, il giornalista, il pittore... Mentre il suo nome, in tempi di guerra tra Russia e Ucraina, rimbalza sui giornali perché tra gli ispiratori di Aleksandr Dugin, teorico dell'eurasiatismo contemporaneo (e a quanto pare ascoltatissimo dallo stesso Putin), i libri di Evola vengono tradotti in inglese e spagnolo e ripubblicati in Italia, grazie anche all'attivissima Fondazione Evola di Roma; e al Mart di Rovereto è aperta, fino al 18 settembre, la mostra Julius Evola. Lo spirituale nell'arte: un evento che ha scatenato nei giorni scorsi le critiche e le ire di una parte della stampa italiana. Due pagine su Domani per smontare l'Evola-pittore, considerato artista meno che mediocre da Demetrio Paparoni; e una sulla Stampa per mettere in guardia lo spettatore dall'Evola-pensiero: secondo Mirella Serri il presidente del Mart, Vittorio Sgarbi, celebrerebbe l'Evola futurista e dadaista dimenticando l'Evola fascista e razzista (ma si tratta di una mostra di pittura, e se è per questo non si parla neppure dell'Evola orientalista, o storico delle religioni, o filosofo, o uomo di editoria...). La dimostrazione, indiretta, che il nome di Julius Evola è ancora indigeribile a tanta intellettualità italiana.

E a maggior ragione quindi è utile la lettura del nuovo saggio di Guido Andrea Pautasso, fra i massimi esperti del filosofo-artista, intitolato, provocatoriamente ma con intelligenza, Julius Evola (anti) fascista negli anni Trenta (Ritter): un testo che recupera un pugno di articoli, di cui si era persa traccia, che il filosofo romano scrisse per la rivista Il Saggiatore nel 1930 e '31 e dai quali emerge un pensatore tradizionalista sì, ma non fascista (non sarà mai iscritto al Pnf, come non sarà mai tesserato dell'Msi), anzi «al di là» del fascismo, movimento di cui non apprezzerà mai il lato «populista», lui che crede in un'élite superiore. Si tratta di pochi testi, scritti in un periodo contraddittorio in cui il fascismo mostra le sue anime diverse, fra rivoluzione e regime, che ci restituiscono un Evola individualista, antidemocratico, élitario, aristocratico, non inquadrabile nel movimento di massa che infiamma l'Italia - il filosofo odia il popolo, ed è un motivo per cui i fascisti non lo sentono uno di loro - e persino a-politico.

In realtà dai rapporti della polizia politica ritrovati nell'archivio centrale dello Stato emergono giudizi tranchant da parte della questura e dei vari Ministeri durante il Ventennio: si parla di lui come di persona antifascista, amico di antifascisti, pericoloso emissario della Terza internazionale; e c'è la prova che negli anni '40 rifiuta persino una cattedra

offertagli da Giuseppe Bottai, perché preferisce viaggiare. A dimostrazione di quanto sia ancora poco inquadrabile, e giudicabile, l'intellettuale - così tanto odiato e frainteso cento anni dopo la tragica Marcia - Julius Evola.

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