L’ultimo Paradiso, nuova pellicola Netflix Original appena sbarcata sull’omonima piattaforma, vede Riccardo Scamarcio nella triplice veste di produttore, co-sceneggiatore e attore protagonista. Il film, epopea contadina ambientata nella Puglia degli Anni 50 e ispirata a una storia vera (ancorché, in realtà, lucana), è un tuffo in un passato che ancora oggi fatica a dirsi archiviato: quello dei delitti d’onore e dello sfruttamento legato al caporalato.
Siamo nel 1958 in un piccolo paese di un Sud aspro e bellissimo. Ciccio (Scamarcio) è un agricoltore quarantenne che, nonostante moglie (Valentina Cervi) e prole, si innamora perdutamente di Bianca (Gaia Bermani Amaral), la figlia di un temuto proprietario terriero (Antonio Gerardi). Sognando di portare un vento di cambiamento non solo nella vita dei contadini sfruttati ma anche nella propria, Ciccio sprona da un lato i suoi pari a far valere i propri diritti, dall’altro la sua giovane amante a fuggire con lui verso nuovi lidi. Quando la voglia di ribellione si accompagna alla sconsideratezza, però, rendendo temerari in un contesto in cui vige una ferinità ancestrale, le cose non possono andare a finire bene. La tragedia, infatti, è dietro l’angolo.
“L’ultimo Paradiso” intreccia dramma, amore e voglia di emancipazione, esplorando le dinamiche che legano lotta di classe e sogni di libertà. Per sviscerare il legame indissolubile con la terra d’origine, si analizza nella prima parte il vissuto di chi vi sia rimasto ma vorrebbe andarsene, nella seconda il punto di vista di chi, partito, ne senta nostalgia. Le due metà del film sono speculari tra loro in quanto i due personaggi che ne sono singolarmente protagonisti si presentano, letteralmente, come l’uno il riflesso dell’altro (non diciamo di più per non fare spoiler).
Il regista sembra interessato a regalare uno spaccato di Meridione cruento e barbaro, ma nel farlo ricorre a elementi privi di mordente perché abusati e, anche quando all’orizzonte compare il cambiamento prospettico legato a una persona venuta da fuori, la gestione del racconto non è delle migliori.
Incomprensibile la scelta di Gaia Birmani Amaral come protagonista femminile, non tanto per la fisicità antitetica rispetto a quella della siciliana media (almeno uno stereotipo cui il film non si allinea), bensì perché l’attrice quarantenne è chiamata a impersonare una ragazza di età indefinita ma sicuramente molto acerba. Sfoderati la freschezza e il piglio adolescenziale richiesti dal ruolo e complici le forme da ragazzina e gli occhi da cerbiatto, la Amaral tenta il piccolo miracolo di apparire credibile nonostante l’anagrafe, ma ci riesce solo in parte.
Difficile, per non dire impossibile, sognare assieme a lei sulle note di 'Que reste til de nos amours' di C. Trenet, perché le suggestioni non sempre generano emozioni.
Ambizione e buoni propositi non bastano: il potenziale del film resta in buona parte abortito dalla mancanza di approfondimento. I personaggi sono figure appena abbozzate, come se l’intento fosse proprio mettere in scena archetipi di un mondo contadino arcaico fatto di padri-padroni, donne succubi e così via, in modo da avvalorare, complici il dialetto e scenografie di accurata semplicità, una ricostruzione storica “ideale” più che realistica. La scelta, inoltre, di usare stilemi narrativi di genere, concorre a uccidere le peculiarità dei singoli personaggi e a inibire quindi il coinvolgimento dello spettatore.
La progressiva rarefazione che nel finale si va attuando attraverso realismo magico e allusioni oniriche, va a trasformare “L’ultimo Paradiso” in una
fiaba nera sui generis, in cui, dopo l’orrore, le seconde possibilità diventano tracce di vita sognata.Un viaggio nel tempo apprezzabile e godibile ma da compiere senza aspettarsi di venirne toccati, se non superficialmente.
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