Nel febbraio del 1920, i Lawrence sono ancora a Capri. Una coppia che non si può non notare: lui, lo scrittore dalla barba rossa in odore di scandalo, figlio di un minatore, in esilio dall'Inghilterra ancora puritana, lei la moglie, baronessa Frieda von Richtofen, sorella del Barone Rosso, eroe dell'aviazione tedesca, che ha lasciato un marito e tre figli per seguire lui nel suo vagabondaggio. Hanno il bagaglio bloccato da uno sciopero dei ferrovieri che dura da due settimane. Ma vogliono partire lo stesso, e si imbarcano per la Sicilia. A Girgenti, dove hanno loro consigliato di fermarsi, è in atto un altro sciopero, questa volta dei minatori delle cave di zolfo, coi disordini che ne conseguono e che rendono così difficili quegli anni per l'Italia.
La coppia finisce a Taormina, e vi si ferma. Lawrence e Frieda disdegnano i grandi alberghi, frequentati dal bel mondo inglese di allora. E affittano due piani di una casa nella località detta Fontana Vecchia, di proprietà della famiglia Cacopardo. La casa ha la pareti dipinte di un rosa appena visibile perché rampicanti folti e verdissimi le ricoprono quasi completamente. I Lawrence avevano una lunga consuetudine con l'Italia: avevano abitato nel 1912 sul lago di Garda, nel 1913 a Fiascherino, vicino a Lerici, nel 1919 a Firenze e Capri. La Sicilia è altra cosa: a Lawrence appare come una sorta di pedana da cui prendere il volo per andare fuori dall'Europa. Si sente arrivato a un confine oltre il quale c'è l'Africa e l'Asia, i siciliani stessi, «sottili, bruni, strani», gli sembrano greci antichi e fenici. La casa dove abitano è a dieci minuti dal paese, in mezzo ai mandorli e a un trionfo di fiori tra cui spiccano i gladioli e gli ireos, «piccole divinità scese sulla terra». Capri al confronto è nel ricordo un'arida roccia.
A Frieda piace soprattutto la posizione della camera: è esposta a levante, e il sole si leva diritto in faccia al loro letto. Una benedizione pagana per i due amanti. Ai Lawrence, nemici della vita salottiera, piace da sempre la compagnia della gente semplice. E così ecco che lei riveste le sue forme opulente con panni da contadina, e porta sulla testa il cesto delle provviste come ha visto fare alle donne del villaggio. Lui gioca con Carmelo, il figlio piccolo di Ciccia Cacopardo, che ancora molti anni dopo ricorderà la barba rossa di «Lorenzo». I Lawrence sono inquilini ma anche amici: ordinano il pane dai Cacopardo, e quando arriverà dall'Inghilterra Ciccio, che era emigrato là, un tipo sveglio e poliglotta, in attesa di trasferirsi in America, Lawrence lo prenderà come modello per il personaggio del romanzo a cui sta lavorando, La ragazza perduta, cui darà proprio quel nome.
Il soggiorno a Taormina si prolunga. Quando per diverse ragioni i due dovranno allontanarsene, sarà per poco. Taormina, Fontana Vecchia, i Cacopardo sono un forte richiamo. C'è anche una ragione che non rientra nell'ordine della poesia e che Lawrence rivela in una lettera: l'affitto di un anno della casa a Taormina gli costa duemila franchi, niente, quando pensa che ne ha speso mille per far dattilografare il suo romanzo La ragazza perduta a Roma. E così eccoli di nuovo a Fontana Vecchia nello stesso autunno del 1920. Li sorprende una pioggia così continua che li fa sentire come in un acquario, e Lawrence è colpito nell'immaginazione dai rami nudi dei mandorli, trame di fili di ferro nero arrugginito, percorsi dalla sensibilità elettrica che prepara in primavera la loro fioritura. Chimici accenti del sole sono nell'aria invernale, che palpita di vita a venire, basta avere l'orecchio per ascoltarli.
Il soggiorno è brevemente interrotto per il viaggio in Sardegna, su cui Lawrence, appena rientrato a Fontana Vecchia, scriverà di getto il libro che poi sarà conosciuto con il titolo Mare e Sardegna. Intanto lo scrittore, che aveva nel suo arco le frecce della prosa romanzesca e di viaggio e quelle della poesia, sta lavorando a un libro che possiamo considerare il più amplio, appassionato, visionario libro sulla natura scritto nel secolo scorso: si intitola Uccelli, bestie e fiori. Un capolavoro poco conosciuto, o addirittura misconosciuto, come spesso accade ai libri che hanno forza profetica. È come se la forza profetica e visionaria di un autore infastidisse il filisteismo appagato degli altri.
Lawrence un giorno scende al pozzo vicino a casa sua, a prendere acqua per i lavori di casa che compie con sistematica frequenza, lavare i panni, preparare il pranzo, fare le pulizie. Mentre si affaccia al pozzo, vede spuntare da una crepa nel muro un serpente, bruno ma con filettature oro, che si mette a bere facendo vibrare la sua lingua biforcuta. La voce della sua cultura dice allo scrittore che dovrebbe prendere un bastone e ucciderlo. Perché con quelle striature giallastre quel serpente è probabilmente velenoso. E altre voci lo provocano: se fossi un uomo lo colpiresti, lo faresti a pezzi. Ma la sua sensibilità lo fa esitare, gli fa cogliere la bellezza arcana di quell'essere uscito dalle viscere della terra, lo spinge a considerarlo suo ospite. Dopo aver bevuto ancora, il serpente guardandosi intorno, lentamente, si ritira nel buio, in una fenditura profonda della terra. Quando è già quasi tutto scomparso, Lawrence ha un soprassalto come di rabbia, non sa se per la sua viltà o per quel nascondersi del serpente. Prende un ceppo e lo scaglia contro la coda ancora visibile. Non è sicuro di averlo colpito: ma di certo si pente immediatamente di ciò che ha fatto. È conscio di aver commesso una vile, volgare spregevole azione, e di aver mancato con meschinità l'occasione di un incontro con uno dei signori segreti della vita. Tutto questo è nella poesia Serpente: che ci dice già bene come nella forza selvatica della natura Lawrence tende a vedere le ultime manifestazioni del divino nel mondo.
Intanto, comincia a dichiararsi «stufo di Taormina, dell'Italia, dell'Europa». Sogna di trasferirsi in America e comperare una azienda agricola, una fattoria dove coltivare fragole, allevare api, produrre marmellate. Pensava già al furgone Ford che gli sarebbe servito per portare i prodotti al mercato. E a Ciccia Cacopardo col marito Vincenzo come compagni di viaggio e d'avventura. Nel terzo e ultimo soggiorno a Taormina, nella primavera del 1921, Lawrence divenne sempre più insofferente della vita in Europa. Che era in Europa glielo ricordavano le signore inglesi della buona società che chiedevano di conoscerlo, salvo poi scandalizzarsi se, dopo due bicchieri di vino forte, diventava eccessivamente cavalleresco e galante, al punto di arrampicarsi su una mimosa per strapparne un ramo e farne omaggio. Seminudo, soleva salire su un gelso e mangiare le more sino a sporcarsi di rosso scuro la faccia e il torace: e così assomigliava a Cristo che diventa Pan, soggetto del racconto che poi scriverà e avrà per titolo L'uomo che era morto.
In questo periodo, Lawrence scopre Giovanni Verga. Ne rimane folgorato. Scrive: «Verga è il solo italiano che mi interessa». Lo vede come uno «scrittore straordinario, paesano, del tutto moderno e omerico». Comincia dunque a tradurre Mastro don Gesualdo e Cavalleria rusticana e altre novelle. La sintonia con il mondo di Verga è profonda, Lawrence, scrittore moderno quant'altri mai, ama la potenza arcaica del primordiale, sa vedere tutta l'energia epica dell'autore catanese. Ma sempre di più, dalla Sicilia, il suo sguardo si volta verso l'America. Le lettere della sua lettrice e ammiratrice Mabel Dodge Luhan gli parlano di tribù indiane non ancora corrotte, dove è ancora viva l'adorazione del sole.
Così i Lawrence, pur presi da una certa malinconia, entrano nell'idea di partire. Seguiranno la via più lunga. Arriveranno all'America attraverso l'oceano Indiano e il Pacifico, sostando nella Ceylon buddista decantata da certi loro amici. Intanto vanno da Taormina a Messina, e da lì a Palermo, e infine a Napoli. Li vediamo sulla banchina del porto, in attesa della partenza per l'Oriente. Il loro bagaglio consiste in un baule di oggetti domestici, un baule di libri, due piccole valigie, una cappelliera, due piccole borse. È tutto quello che hanno. I Lawrence sono perennemente in fuga, non posseggono case, stanno per lasciare l'Europa dove torneranno soltanto molto più tardi, all'inseguimento di qualcosa che non sanno neppure loro, come sospinti da un vento di passione, inquietudine, ricerca. Così Frieda intitolerà più tardi il libro delle sue memorie, Non io, ma il vento, da un verso del suo compagno di vita, di eros, di avventura. Del bagaglio, sublime capriccio di Frieda, fa parte la fiancata dipinta a colori molto vivaci di un carretto siciliano. «Ecco la Sicilia», gridano i facchini «la Sicilia che parte per l'India».
Chissà che senso aveva, per Frieda, portare con sé come un feticcio quel ricordo del periodo passato a Taormina.Forse voleva dire che, se si parte, si può sempre tornare. Ma tornare ancora una volta a Taormina non era scritto nel loro destino.
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