Letizia Battaglia e la difesa dei vinti nella Sicilia di Verga

Il verismo delle sue immagini in bianco e nero è stato testimone implacabile dei dolori di un popolo

Letizia Battaglia e la difesa dei vinti nella Sicilia di Verga

Chiedere a me di ricordare Letizia Battaglia, al dilà della considerazione necessaria e dovuta per la sua opera, è un paradosso. Non la vedevo da trentadue anni; da quando, sul palcoscenico del Maurizio Costanzo Show, mi trovai davanti a una signora, forte e fragile, già considerata e nota per le sue fotografie e per l'impegno politico, che era stata nominata dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, assessore alla vivibilità. Qualcosa scattò nella mia mente al solo sentire quella improbabile denominazione, che nascondeva un problema: il disagio di vivere a Palermo per le ragioni che sappiamo e che, proprio in quell'anno, culminarono con gli attentati mortali di Falcone e Borsellino.

Nel Gattopardo, don Fabrizio Salina, all'inviato di Casa Savoia, Aimone Chevalley, che gli proponeva la nomina a senatore del Regno, risponde: «noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. In Sicilia non importa far male o bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare... Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia... Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto... D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio siciliano... Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti: tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi...».

Tra le contraddizioni indicate da don Fabrizio Salina vi è dunque anche un assessorato alla vivibilità. Quella sera Letizia Battaglia parlò della sua visione utopica, della Palermo riscattata dalla mafia, dalla disoccupazione, dall'inerzia, e propose l'idea di far lavorare i matti, facendo timbrare loro il cartellino. Mi ribellai con veemenza, e le rimproverai la insensata presenza, nella disperata piazza Garaffello, alla Vucciria, teatro delle azioni liberatorie di Uwe Jaentsch, con le facciate nere dei palazzi barocchi in totale abbandono, di squadrate panchine disegnate da Ettore Sottsass: un contrasto stridente e irrazionale. Lei la prese male, non capì il mio paradosso e si mise a piangere. Le dissi perfino che un assessore alla vivibilità, inesistente altrove, confermava che Palermo era una città invivibile.

Mi resi conto di aver infierito e, nel corso dei decenni, proposi sue fotografie al museo della mafia di Salemi, da me istituito nel 2010. I miei collaboratori più vicini avevano contatti con lei che non manifestò, generosamente, animosità nei miei confronti. Per anni mi ripromisi di rincontrarla, per manifestarle la mia considerazione. Non è stato possibile. Il tempo è stato più veloce di noi. Quanto al disagio di vivere a Palermo era vero il contrario, per lei: non poteva vivere che in Sicilia, respirare quell'aria, vivere quei contrasti, testimoniare la forza disumana di quella violenza, stando in trincea, in uno stato perenne di guerra.

Nel 1974 aveva visto l'inizio degli anni di piombo nella sua città, scattando foto dei delitti di mafia per informare e scuotere le coscienze. Capì di trovarsi nel mezzo di una guerra civile. Il suo archivio racconta l'egemonia del clan dei Corleonesi. Sono suoi gli scatti all'hotel Zagarella che ritraggono gli esattori Salvo insieme a Giulio Andreotti e che furono acquisiti agli atti per il processo. Il 6 gennaio 1980 è la prima fotoreporter a giungere sul luogo dove fu assassinato Piersanti Mattarella. Nello stesso anno, la sua «bambina con il pallone» nel quartiere palermitano della Cala fa il giro del mondo. Di quel mondo lei è testimone implacabile come Verga lo è dei vinti, lo documenta con le sue fotografie rigorosamente in bianco e nero, rappresentando Palermo nella sua miseria e nel suo splendore perduto, ma abbagliante. Certifica i morti di mafia ma anche le tradizioni, gli sguardi dei bambini e delle donne, i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere, in una città dalle imprevedibili contraddizioni.

Sono proprio i contrasti di cui parla don Fabrizio Salina a spingerla a fotografare. Anche nei luoghi di Sicilia dove la vita contadina e le tradizioni popolari sembrano altrove rispetto ai luoghi della violenza mafiosa. Ma, con la morte di Falcone, il livello della violenza supera la sua capacità di resistenza. La Battaglia sembra abbandonare l'arma della fotografia e si trasferisce a Parigi come per il riconoscimento di una sconfitta. Ma nel 2011, tornò a esporre le sue fotografie a Palermo. In tempi più recenti, nel 2017, aprì nei Cantieri culturali della Zisa il Centro internazionale della fotografia, per insegnare a vedere e comprendere il mondo sopratutto in una città in stato perenne di emergenza come Palermo.

Nessun dubbio che la sua intelligenza fosse, come poche altre, viva e allertata davanti a una realtà così difficile. Ho perso un'occasione; e oggi, davanti a quello che i suoi occhi hanno visto, posso affermare che Letizia Battaglia ha contribuito a farci capire la Sicilia come pochi altri.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica