Le lettere al vetriolo di Capote tra scrittori, attori e magnati

I carteggi dell'autore di "A sangue freddo" sono pieni di sorprese . Anche sulla famiglia Agnelli

Le lettere al vetriolo di Capote tra scrittori, attori e magnati

Diversi quotidiani italiani a oggi hanno stroncato, quasi senza pietà, quasi senza leggerlo, È durata poco la bellezza che come recita il sottotitolo raccoglie «Tutte le lettere» di Truman Capote, l'autore, tra gli altri di A sangue freddo e Colazione da Tiffany.

Da pochi giorni nelle librerie italiane per Garzanti (traduzione di Filippo Balducci, Francesca Cristoffanini e Giuseppe Maugeri, pagg. 600, euro 28) a una prima lettura superficiale può sembrare, in effetti, una raccolta di pettegolezzi, di amarezze, di quelle operazione postume sugli scrittori morti che gli editori pescano dal cestino per sfruttare la celebrità dell'autore.

E invece tra le pagine è un vero Truman Show: lo scrittore americano, nato a New Orleans nel 1924 e morto a Los Angeles nel 1984 è pirotecnico, irrefrenabile, divertente e schietto come da decenni mancava negli epistolari di altri suoi compagni di penna. È un Capote (si pronuncia Capoti) sorprende su tutto perché incontriamo più disciplina che dissipazione.

La fiammeggiante corrispondenza lo riporta in vita in molteplici ruoli: da adolescente gadabout (in italiano: perdigiorno) a stella letteraria a uomo distrutto dai continui ricoveri per disintossicarsi dall'alcool e ormai lontano dallo spirito di un tempo.

Un percorso che troviamo anche nella cronologia di queste lettere: dalle prime, anche ridondanti e soprattutto divertenti, alle ultime quasi telegrafiche e scritte sempre più raramente perché, come sottolinea il biografo e curatore Gerard Clarke «negli ultimi anni preferiva telefonare».

Il Capote inedito e spontaneo che troviamo qui è una creatura diversa dal meticoloso artigiano che scrisse, tra le altre opere accuratamente affinate, A sangue freddo, il capolavoro del 1967 che fondeva il giornalismo con l'impatto emotivo di un romanzo che lui chiamava «la precisione della poesia».

Nelle sue lettere offre il cuore e l'anima con un'arguzia rara a un gruppo di amici e colleghi artisti, così come a conoscenti influenti; i suoi affetti sgorgano tra errori di ortografia e una sintassi stridente.

Disdegna di velare la sua omosessualità e rivela presto una predilezione per i pettegolezzi conditi di aforismi. Scrive da una varietà infinita di luoghi diversi: Portofino, una villa siciliana a Taormina, lo yacht di Katherine Graham, Sankt Moritz, Verbier. Capote era un leone sociale ma rivela di «condurre una vita da monastero» e non può tornare negli Stati Uniti, dichiara, finché non avrà completato la stesura del suo romanzo L'arpa d'erba.

Anche questo suggerisce che oltre i giudizi schietti che leggiamo tra le lettere, si può comprendere anche il suo metodo artistico, il suo rigore, che magari cela dietro a battute al vetriolo. Per nascondersi, come ha fatto nella sua vita, trincerandosi dietro a una sciarpa, occhiali neri e cappello nero tipo Borsalino.

Ricordando gli eventi mondani di New York che lo portarono a calcare le scene più glamour della metropoli (compreso il celebre night Studio54 di Andy Warhol) in una lettera ricorda che per molti anni la sua «professione di scrittore è stata più che altro una lunga camminata tra un drink e l'altro».

Ma veniamo al Truman Show: Capote confessa di avere avuto un flirt romano con Montgomery Clift («Niente di troppo serio», commenta ironicamente), per anni, lui e Leo Lerman, l'editore di Vogue e impresario culturale, corrispondono come "Marge" e "Myrt", come le concorrenti coriste madre-figlia di un serial radiofonico degli anni Trenta con esiti esilaranti ma con una profondità di pensiero che ci fa capire quel mondo di engagé perché, come scrive in una lettera del 1962, considera New York una «città malvagia».

Mentre cerca di completare il suo romanzo in una sorta di esilio dall'America -anche dovuta alla sua omosessualità sempre esibita in una nazione ancora puritana- riceve dai suoi editori di Random House - più precisamente Robert Linscott, Bennett Cerf e Robert Haar- una lettera di disappunto per gli argomenti trattati. Capote risponde per le rime: «Non posso sopportare che tutti voi pensiate che il mio libro sia un fallimento; sono colpito da una trinità di opinioni così schiacciante. La vaghezza della critica mi fa sentire ancora più impotente». Quanti scrittori oggi avrebbero questo coraggio nel rispondere a una delle più importanti case editrici americane? Esistono scrittori scrittori, come Capote e scrittori-impiegati come quelli che concorrono per il Premio Strega

Non mancano lettere, a giovani autori, su cosa sia «la vera scrittura», come la chiama: «Vai fuori strada per trovare una parola strana o lunga, dove ne basterebbe una più semplice. La maggior parte degli scrittori principianti lo fa - apparentemente sotto l'impressione che una buona scrittura sia una scrittura di fantasia. Non è così. Sforzatevi di essere semplici - la parola semplice e quotidiana è di solito la migliore. È come le disponi che conta».

E i suoi colleghi scrittori? Di James Baldwin scrive «Detesto la narrativa di Jimmy: è scritta in modo grossolano e di una noia che arriva alle palle»; del Nobel andato a Faulkner scrive che: «i suoi racconti mi sembrano mal scritti, illeggibili: frodi assolute»; di James Purdy «scrittore interessante, ma non riuscito»; di Tennessee Williams «È quando scrive articoli per i giornali che tocca l'assoluto zenit della volgarità. È pseudogionalismo». Perché, sottolinea Capote, «nessuna lettera degna di questo nome fu mai scritta per trasmettere informazioni o per compiacere il ricevente. Una lettera può fare l'una e l'altra cosa incidentalmente ; ma il suo scopo resta quella fi esprimere la personalità di chi la scrive».

E così Capote non mente neanche davanti all'alta società e anche sui luoghi non lesina giudizi drastici ma illuminanti: «A St.

Moritz ospite di Marella e Gianni Agnelli si sarebbe detto che ogni potentato del mondo si trovasse lì: i comunisti non avevano che da bombardare il Corviglia Club. È stato divertente. Però che gente assurda».

E in queste righe c'è tutto Truman Capote.

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