L'hanno sommariamente definito economista, europeista, schierato contro l'austerity. Ma è stato anzitutto uno dei pionieri dell'amicizia franco-italiana, un trait d'union tra due Paesi e culture con sistemi politici e istituzionali diversi; che spesso si guardavano in cagnesco nonostante i problemi simili. La specialità di Jean-Paul Fitoussi, spentosi improvvisamente ieri a 79 anni, sta nell'essere stato un accademico francese al servizio d'una causa comune: la crescita economica nel rispetto dei diritti sociali, specie nelle due capitali professionali, Parigi e Roma. Cinquant'anni di suggerimenti, ricette non scontate e interventi in aula e sui giornali, da Le Monde a Repubblica; fino alla sua ultima intervista, apparsa lunedì su questa testata.
Facile a dirsi, ricorrendo ad arzigogolati teoremi. Lui, nonostante la caratura, attingeva piuttosto a spezzoni di realtà per elaborare norme sostenibili che potessero aiutare esecutivi (e studenti) a capire dove si nascondeva per esempio l'insidia della globalizzazione incontrollata, dell'inflazione, della disoccupazione rilevata con dati non sufficientemente circostanziati; quindi di fatto nascosta nella sua particolare gravità, specialmente in Francia.
Uno dei suoi ultimi alert, più che un j'accuse, nel 2019 ne La neolingua dell'economia (Einaudi): «Inventiamo un linguaggio basato su una teoria immaginaria e ce ne serviamo per piegare la realtà ai nostri bisogni, esaltiamo la concorrenza perché efficace o vantaggiosa per il consumatore, ma senza dire che potrebbe essere disastrosa per il produttore». Oggi si corre ai ripari per aver guardato il dito e non la luna. D'altronde, l'esperienza alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) a inizio anni '90, a capo del Consiglio di analisi economica a supporto del governo francese, gli permise di studiare i mutamenti del presente; fino a rendersi autorevole anche nelle critiche alla rigidità delle politiche di bilancio e di economia monetaria, che scatenavano effetti negativi sulla crescita e sull'occupazione.
Austerity? Certo. Ma senza dimenticare le persone, valutandone in primis gli effetti. Questo diceva tanto a SciencesPo, l'Institut d'Etudes Politiques di Parigi dov'era insegnante emerito, quanto alla Luiss di Roma. E anche al Festival dell'Economia di Trento, dove ha svolto un ruolo centrale nell'organizzazione dell'edizione 2022. Fitoussi era un faro a cui rivolgersi. «E un indirizzo lo dava sempre, anche quando altri tacevano o in Francia ricorrevano alla cosiddetta langue de bois», ricorda Edoardo Secchi, presidente del Club Italie-France che con Fitoussi ha collaborato a lungo negli ultimi 5 anni: «Ha sempre avuto un attaccamento, quasi un senso di protettivo affetto per l'Italia, provando a capire e solo poi a spiegare all'estero le complessità del nostro sistema Paese, non nascondendone limiti e difficoltà. Forse è stato il francese più filoitaliano degli ultimi 30 anni. E non cambiava idee a seconda delle necessità».
Una carriera in Italia quasi più importante di quella ottenuta Oltralpe, dov'è stato anche fondatore e a lungo direttore dell'Osservatorio sulle congiunture (Ofce) dall'89 al 2010; e dove, nel febbraio 2008, nel mezzo dell'incombente crisi finanziaria globale, il presidente Nicolas Sarkozy gli chiese di unirsi ai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen nella Commissione per le performance economiche e il progresso sociale, che già nel settembre 2009 proponeva nuovi indicatori più adatti al calcolo del Pil per determinare il livello di benessere.
Fitoussi rifuggiva la tecnocrazia fine a se stessa, come il termine élite a cui ha sempre preferito «classe dirigente». Con questa impostazione ha collaborato con diversi governi italiani. E ancor prima con aziende e banche. Dal board di Telecom Italia (dal 2004 al 2017) al consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo e Banca Sella. Italia nel Dna, fin dai trascorsi giovanili a Firenze all'Istituto di studi europei di Fiesole: «Uno dei periodi più belli della sua vita».
Vicino al centrosinistra, non ha mai ricoperto incarichi prettamente politici neppure Oltralpe. Con l'ideologia di una certa gauche non ha mai stretto patti. Non guardava con occhio benevolo alla socialdemocrazia tedesca: criticava anzi Berlino e il suo modus operandi all'interno dell'Ue. Lui, keynesiano, attaccato da qualche esponente della corrente neoliberista, nei suoi ultimi libri (tra i più noti, Il teorema del lampione, in cui descriveva il declino del ceto medio e l'esplosione delle disuguaglianze), ha avuto il coraggio di offrire anticipazioni sulla sovranità nazionale e sull'Europa federale, sull'egemonismo spinto della Germania; posizioni su cui si stanno spostando tanti colleghi. Ricette concrete, non semplicistiche: l'ultima l'ha spiegata al Giornale commentando gli «errori» di Emmanuel Macron sulle politiche sociali, invitandolo ad ascoltare il cuore del Paese, non solo i diktat di Bruxelles. «I problemi vanno risolti dove sono, negli Stati».
Detto da un prof che non può essere tacciato di sovranismo, è stata solo l'ennesima dimostrazione di come si possa cambiare idea senza perdere credibilità o tradire disonestà intellettuale. Tentarlo era quasi impossibile, se ciò richiedeva una rinuncia alla schiettezza d'analisi. Anche per questo ha avuto fortune ma pure qualche inciampo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.