La libertà dell'autentico intellettuale

Morto alla soglia dei cent'anni il grande romanziere (ed eccelso saggista) napoletano

La libertà dell'autentico intellettuale

«L'immaginario, proprio come l'ambiente, si sta inquinando, si è già inquinato, per un eccesso di produzione, e non c'è filtro bastante a depurarlo. Una volta questo filtro era la cultura che unita al talento individuale e avendo a disposizione una scala di valori, faceva una scelta tra le informazioni e le rappresentazioni da accogliere, e quelle da respingere. Ma oggi mentre la massa delle informazioni e delle rappresentazioni si è enormemente accresciuta, la capacità del filtro si è fortemente intaccata. Da qui quell'eccesso di sapere che produce non-sapere o un sapere indifferenziato, quella valanga d'immagini che produce il vuoto d'immaginazione, quell'inflazione di parole che produce svalutazione della parola».

Queste parole di Raffaele La Capria, uscite in volume nel 1990 (Letteratura e salti mortali), definiscono bene la posizione centrale che questo grande scrittore ha occupato, senza troppi strepiti, nella storia della nostra letteratura degli ultimi settant'anni.

Io e La Capria ci conoscemmo nel 1992, durante la cerimonia del Premio Napoli, che avevo vinto. Fu lui a venirmi a cercare, a farmi i complimenti. Ricordo le sue parole puntuali, il suo sguardo sottile, indagatore. Alcuni anni più tardi scrisse un libretto intitolato La mosca nella bottiglia, un elogio del senso comune. Nelle sue parole riconobbi il suo sguardo su di me. Riprendendo una frase celebre di Ludwig Wittgenstein («La filosofia a questo serve, ad aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia»), lo scrittore osserva che per poter uscire la mosca deve sapere com'è fatta la bottiglia. Niente è più difficile, per chi sta dentro la bottiglia, ossia per tutti noi. Già sapere di esserci dentro è, come si dice, tanta roba.

Ecco come mi guardava, Raffaele. E come guardava gli uomini, nei suoi libri come nella vita di ogni giorno. Capire un uomo significava per lui definire il grado di consapevolezza della mosca alle prese con il bisogno di uscire dalla bottiglia. Cosa ne sai di te stesso, e della bottiglia in cui ti trovi? Nel 2000, al Premio Strega, lo vidi arrivare al mio tavolo. Mia moglie e io ci alzammo, lui baciò la mano a mia moglie e le disse: «Buonasera, M.me Dostoevskij». Avevo scelto quella guida, quel Virgilio per uscire dalla bottiglia.

A sé stesso non riservò un trattamento di favore. La sua produzione come romanziere si riassume in tre opere, scritte a una decina d'anni di distanza uno dall'altro: Un giorno d'impazienza (1952), Ferito a morte (1961), Amore e psiche (1972). Dei tre, se ben capisco, amò soltanto Ferito a morte, un romanzo che fece parlare di sé prima ancora di uscire in volume, e che poi vinse il Premio Strega. L'ho letto due volte, negli anni Ottanta e una ventina d'anni dopo, e sono stati due libri differenti.

Il primo era un libro raffinato, in bianco e nero, dove una condizione umana alla fine deludente (riconducibile nell'atmosfera a certe scene d'area neorealista) veniva passata al vaglio di un metodo narrativo rinnovato (con liberi riferimenti a Joyce, Faulkner, Proust, Camus) capace di dilatare o stringere i tempi e passare con fluidità dal «dentro» al «fuori» dei personaggi. Il secondo era un libro a colori vivissimi, lucido e attento a definire un mondo esausto nell'autorappresentazione, un'Italia di personaggi «tipici» incapaci di abbandonare lo statuto di personaggi, ossia di comprendere la struttura della bottiglia dalla quale devono uscire.

La Capria fu anche uomo di cinema, sceneggiatore, e su marito di quella grande attrice che fu Ilaria Occhini, a sua volta nipote di Giovanni Papini (una cosa, questa, che ho sempre trovato molto significativa). Ma il La Capria più importante resta a mio parere il saggista, l'intellettuale. Pur avendo scritto pagine di straordinario acume sulla letteratura e l'arte di narrare, ho la sensazione che, col passare degli anni, la sua fiducia nelle possibilità di rinnovamento di quest'arte sia scemata: troppo difficile scrivere, troppo confuse le idee.

Il brano riportato in apertura, scritto ben prima dell'avvento di internet e più ancora dei social - scritto, voglio dire, al tempo in cui far sentire in pubblico la propria voce era un privilegio per pochi - illustra, con parole pesate al milligrammo, questa condizione di spaesamento, che lui stesso avvertì - prima degli altri - sulla propria pelle. Colpisce l'idea di «cultura», definita da due cose: il talento da un lato e, dall'altro, una scala di valori. Il talento esiste da sempre, ma senza una scala di valori si perde, si confonde, diventa irriconoscibile. Senza la cultura così intesa, non è più possibile stabilire a che punto della bottiglia ci troviamo, e cosa dobbiamo provare a fare per uscirne: il sapere produce non-sapere, le parole producono vuoto, le immagini uccidono l'immaginazione. David Foster Wallace avrebbe detto, molti anni dopo, cose simili.

Uomini come Raffaele La Capria - «Dudù» per tanti amici - muoiono sempre troppo presto. Possono avere trenta, ottanta oppure cent'anni come lui, ma è comunque troppo presto. Sono gli intellettuali, quelli veri, quelli che non sono «di» questo o «di» quest'altro (di destra, di sinistra, cattolici, laici ecc.

) perché appartengono unicamente al loro pensiero, come - piacciano o meno - Pasolini, Testori, De André, Gaber. Uomini liberi, che non potranno mai essere del tutto «sdoganati» perché non sono personaggi, figure, e perciò non trovano casa nelle nostre coscienze.

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