La libertà è una fiaba dove vola una bambina-cigno

"Amarella" di Giuseppe Conte è una storia di amore e ribellione. Con un po' di magia

La libertà è una fiaba dove vola una bambina-cigno

In un tempo non troppo lontano e non troppo vicino al nostro, in una terra non troppo lontana e non troppo vicina alla nostra, una terra di confine che le carte indicavano come marchesato di Boscomare, una bambina di quattro anni aveva perduto il padre e la madre, e da quel momento nessuna parola le era più uscita dalla bocca.

Un'onda più alta delle altre... vraummmmmm... vraummmmmm... l'aveva depositata sulla sabbia della spiaggetta di Tiravento tra i relitti, le alghe e le conchiglie.

Era uscita con il padre e la madre, il Marchese Augusto di Boscomare e la Marchesa Teresa, insieme tutti e tre sul gozzo dalla bella chiglia bianca ed erano stati sorpresi dalla tempesta proprio a poca distanza dalla riva.

Che tempesta, quella!

Il vento aveva gonfiato le onde che sembravano montagne e gallerie tutte verdi e biancastre, la schiuma saltava dappertutto e copriva tutto, che l'avresti detta farina o pan grattato.

La bambina era stata scaraventata in acqua quando il gozzo si capovolse: aveva teso un braccino verso suo padre e sua madre, li aveva visti tra le nuvole di salino e gli spruzzi che tentavano di nuotare mentre le onde li sollevavano quasi al cielo per poi lasciarli ripiombare giù e sommergerli.

Poi aveva sentito la spinta della mano di suo padre e quella di un'onda, insieme. Era scivolata sull'acqua sino a ritrovarsi sola sulla sabbia, dove la schiuma delle onde arrivava urlando e si ritirava. Era al sicuro, ormai. Tossiva tutta fradicia, si strozzava, tremava. Poi si abbandonò, distesa con la testa tra le mani e le ginocchia raccolte contro il petto, come se si fosse addormentata.

Quando gli uomini e le donne del villaggio la trovarono e videro che era viva, gridarono al miracolo. La soccorsero, e lei si riprese. Ma alle prime domande non diede uno straccio di risposta. La bambina aveva una espressione sempre eguale, che le bloccava gli occhi e la bocca: non piangeva, niente. Restava così come una pietra o un pezzo di legno. Anche quando volle dire qualche parola, dalla gola non le uscirono che dei suoni vaghi e terribili, ghhhhhhh... vvvvvvvv... vraummmmmm... come quelli del vento e delle onde.

La bambina aveva abitato con il padre e la madre in un bel palazzotto arioso sulla piazza principale del villaggio di Tiravento, dove lei aveva una camera con due grandi finestre dai vetri colorati che si aprivano su una terrazza con un pergolato di uva dagli acini piccoli e neri, dolcissimi.

Rimasta orfana, fu portata a vivere al Castellaccio, che non era lontano, anzi era proprio lassù, in cima allo spuntone roccioso che dominava la spiaggetta e il villaggio, ma che sembrava irraggiungibile tanto era in alto.

Lì viveva suo zio, Leonardo Saverio Notti, che alla morte del fratello Augusto prese il titolo di Marchese di Boscomare, e il governo di quella terra.

Il Marchese Notti non fu contento, non lo fu proprio, di avere una bimba al Castellaccio. E per di più una bimba muta, incapace persino di dire il proprio nome. La trascurò sin da subito, affidandola alle cure di una governante. E fece capire a tutti e a chiare lettere che quella eredità del suo sventurato fratello, la cui amicizia non aveva mai coltivato, non era la benvenuta nella sua casa.

Forte di questo, la governante, che poi era la moglie di Poldo il Maggiordomo, detta la Poldessa, la confinò in una stanzetta al primo piano con una finestra stretta stretta, dove c'era solo un lettino scalcagnato, una sedia e un attaccapanni, e in un angolo restavano ammucchiati sacchi di carbone e cassette di stoccafissi. C'era un odore acre e salato, con cui la bambina imparò man mano a convivere, sino a impregnarsene lei stessa.

Tutti, ma proprio tutti, si dimenticarono di lei.

Quando raggiunse l'età in cui i bambini vengono avviati alla scuola, nessuno si preoccupò di educarla: la Poldessa le insegnò a far di conto, che poteva venir comodo per qualche incombenza della casa, ma non si preoccupò che imparasse a leggere o a scrivere. Tanto, pensava la Poldessa, cosa avrà mai da dire questa sventurata? Non era soltanto muta: ai suoi occhi e a quelli di quasi tutti gli abitanti del Castellaccio, era anche senza cervello. Aveva il minimo necessario per vivere, i cibi più semplici, un paio di scarpe, un vestitino di cotone per la bella stagione e uno di lana per la brutta.

La bambina crebbe.

E continuò a non parlare, neanche quando avrebbe voluto, quando avrebbe detto volentieri allo Zio che non le andava bene quella governante così rude, non le andavano bene quel letto così duro, quelle finestrine che non ci passava un filo di luce, quei sacchi abbandonati lì...

quando avrebbe chiesto della sua bella terrazza e del suo bel pergolato, oltre che del babbo e della mamma...

Ma non riusciva a emettere nessun suono se non quei vvvvvvvvv, ghhhhhhh, vraummmmmm, che facevano soltanto ridere gli altri.

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