Storico del pensiero politico, ho sempre trovato intellettualmente stimolante il confronto con gli scienziati politici, almeno con quelli che non cercano di nascondere dietro la technicality la mancanza di idee. Per questo i lavori di Angelo Panebianco mi hanno sempre interessato molto, sia sotto il profilo teorico che sotto quello etico-politico. Per quanto riguarda il primo, essi rappresentano una sintesi efficace tra individualismo metodologico (nella sua accezione forte, la politica può comprendersi solo a partire dalle azioni degli individui) e realismo politico (nella sua accezione forte, gli individui e i governi sono obbligati ad agire come agiscono dalla lotta per il potere e da scacchieri interni e internazionali che ne determinano le mosse); per quanto riguarda, invece, il secondo, mi sembra felicemente controcorrente, nella nostra epoca buonista, il voler ricollocare la democrazia liberale sul solido terreno delle scienze sociali, sulla scia dei pensatori classici come Tocqueville, Max Weber, Georg Simmel, Raymond Aron etc., che non ignoravano la verità antica che gli stati non si fondano coi paternostriovvero con i neo-contrattualismi kantiani odiernima nascono da complesse commistioni di cosmos e taxis, ordine spontaneo e ordine costruito.
In realtà, nihil novi sub sole. In fatto di relazioni internazionali, la storia delle dottrine, ci presenta due posizioni fondamentali, riconducibili l'una, quella realista, ad Alexander Hamilton e l'altra, quella idealista, a Giuseppe Mazzini. Nel VI saggio del Federalista (1787), il segretario di Stato di George Washington teorizza il primato della politica estera sulla politica interna. Non sono i regimi politici e gli assetti sociali ed economici- dei vari stati a provocare le guerre ma la mancanza di un ordine internazionale. «È mai, in pratica, avvenuto che le repubbliche si siano dimostrate meno proclivi alla guerra delle monarchie? Non è forse vero che le nazioni sono influenzate dalle medesime avversioni predilezioni e rivalità che agiscono sui re? (...) E il commercio non si è forse, fino ad ora, limitato a creare nuove cause di guerra? La brama di ricchezze non rappresenta, forse, una passione altrettanto tiranna e prepotente del desiderio di potenza o di gloria? Non è forse vero, dacché il commercio è divenuto il fulcro delle nazioni, che le ragioni commerciali hanno dato l'esca a un numero di conflitti armati pari a quello fornito dalla cupidigia di terre e di dominio? E lo spirito commerciale non ha forse, in molti casi, fornito nuovi incentivi all'uno e all'altro appetito?». Opposta la concezione di Mazzini. Nello scritto La Santa Alleanza dei popoli (1849) «Tendenza innegabile dell'epoca che or s'inizia, vi si legge, è quella di ricostituire l'Europa ordinandovi a seconda delle vocazioni nazionali un certo numero di Stati equilibrati possibilmente per estensione e popolazione. E questi Stati, divisi, ostili, gelosi l'uno dell'altro finché la loro bandiera nazionale non rappresentava che un interesse di casta o di dinastia, s'assoceranno, mercé la democrazia, intimamente più sempre. Le nazioni saranno sorelle».
La filosofia sottesa a questi due stili di pensiero ha dato luogo a un'imponente letteratura politologica che Panebianco analizza magistralmente nelle dense pagine del saggio. La perdurante vitalità del realismo politico è per lui indiscussa: «il conflitto, le tensioni connesse alle asimmetrie di potere e alla competizione per il potere e la possibilità che ciò scateni violenza» rappresentano ciò che rende la lezione dei lontani epigoni di Machiavelli è di Hamilton (Hans Morgenthau, Ludwig Dehio etc.) imprescindibile. Ma questi aspetti, pur cruciali, della politica non debbono far dimenticare che gli Stati, che fanno la politica estera, non sono persone in grande, che non debbono rispondere a nessuno quando prendono una decisione ma dipendono, per semplificare, dalla loro base di sostegno, dai gruppi, dalle istituzioni, dagli assetti sociali ed economici e, in definitiva, dagli individui, che hanno una loro sia pur limitata libertà di scelta e che non sono «agenti dominati dalle strutture che li avvolgono».
Gli esempi addotti chiariscono molto bene il concetto. Ne scelgo uno, quello del Granducato di Mosca in lotta contro i mongoli (l'Orda d'oro) nel XV. «Solo un potere assoluto e centralizzato può fronteggiare le guerre con i mongoli da cui prende vita l'impero russo» ma «la competizione politico-militare in cui la Russia si impegna non è spiegabile soltanto come conseguenza di un gioco di azioni e reazioni alimentato dall'anarchia internazionale. Hanno anche un potente peso motivazioni religiose e interessi al controllo di rotte commerciali, nonché le pressioni di un vasto ceto nobiliare che non ha altra possibilità di migliorare reddito e status se non servendo il proprio zar nelle guerre». Insomma il pericolo esterno e l'anarchia internazionale sono lo scenario all'interno del quale vengono prese le decisioni ma queste danno vita a corsi di azione non predeterminati (al di là degli esiti, positivi o negativi).
Resta, però, da chiedersi, indipendentemente dalle scelte che poi faranno gli staticondizionati da gruppi, da organizzazioni, da istituzioni, da «entità sempre scomponibili in interazioni tra individui naturali»- c'è qualcosa di relativamente stabile che potrebbe configurarsi come interesse nazionale (ragion di Stato) e sul cui metro valutare, in senso tecnico, la validità di una linea politica? Ho l'impressione che bilanciare l'importanza dei contesti e quella degli individui non sia agevole e che nei casi concreti si corra il rischio di far pendere il piatto della bilancia ora sugli uni ora sugli altri.
Certo è difficile, come obiettava Raymond Aron a Henry Morgenthau, dire quali «elementi entrano nella definizione dell'interesse nazionale» ma è pur vero che se di volta in volta possono cambiare (si vedano le straordinarie pagine di Weber sulla Germania imperiale e sulla Svizzera: l'una aveva deciso di incidere sui destini del pianeta, l'altra no) la sopravvivenza della comunità politica in quanto tale è un valore decisivo che entra in gioco e di cui debbono tener conto sia lo scienziato politico che lo storico.
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