A differenza dello storico, che può prendersela comoda, un giornalista ha il dovere di essere al posto giusto nel momento giusto. L'inviato speciale Simenon, nei giorni che precedono l'incendio del Reichstag, è a Berlino e alloggia al Kaiserhof, l'albergo dove il capo del nazismo ha il quartier generale. Lo incrocia anche una decina di volte, gli capita di entrare nel suo stesso ascensore e inevitabilmente, con qualche ora di anticipo, finisce col fiutare il progetto di incenerire il parlamento tedesco.
Non di sola Germania vive Europa 33 (Adelphi, pagg. 377, euro 18 euro), la raccolta dei reportages che il papà di Maigret pubblicò su Voilà, la rivista francese voluta da Gaston Gallimard: nelle pagine di Simenon, Hitler, convitato di pietra di quell'anno fatale, si fa attendere un bel po' e non solo perché l'autore degli articoli, non del tutto gratuitamente, vede l'Europa come una vasta periferia della Francia. In realtà, la missione principale è di segnalare un altro e più subdolo incenerimento: quello subito da una certa immagine dell'Europa, «definitiva come una cattedrale, che non corrisponde più alla realtà». L'intervista a Trotskij, raggiunto in una delle Isole dei Principi di Istanbul, la visita agli orrendi dormitori polacchi, persino la descrizione del singolare meccanismo che regola il funzionamento dei grand hotel hanno il medesimo scopo: certificare la dipartita del mondo di ieri e annunciare la sua sostituzione con quello nuovo.
L'Europa del 1933 è, per cominciare, un continente ossessionato dalle frontiere. È per ribadire l'insuperabilità delle frontiere, oltre le quali sonnecchia immancabilmente un nemico pronto a trasformarsi in invasore, che l'inviato speciale di Voilà è bloccato dai doganieri in mezzo alla neve che ricopre il confine lituano o costretto a rimanere per tre giorni a bordo di una nave italiana alla fonda nel porto di Odessa. Particolare interessante, per Simenon il nazionalismo iperbolico è appannaggio non della Germania o della Francia, e men che meno dell'Italia, ma delle piccole patrie che in quel modo, «giocando con i fiammiferi», manifestano un'arretratezza di cui testimonia la prostituta che accoglie nuda e già ubriaca il giornalista senza smettere di inveire contro gli ebrei, i francesi, i russi, i lituani e alla fine (ma non era polacca?) contro gli stessi polacchi.
«A tutta questa gente è stato detto che i popoli hanno diritto all'autodeterminazione. Ci provano, che diamine! Ma non è facile nemmeno in un singolo paesino se la popolazione parla due o tre lingue e ci sono un pope, un parroco, un rabbino, un pastore e due streghe! Allora, siccome la funzione crea l'organo, ecco spuntare fuori una serie di teorici dello spirito nazionale...». Questo patriottismo impraticabile e forse posticcio sconvolge specialmente lo stile di vita delle élites dell'Europa dell'Est: a Varsavia, Bucarest, Budapest si balla fino alle undici del mattino, nell'unico ristorante decente della capitale si pranza accanto al capo di stato maggiore e quanto al visto sul passaporto, lo appone direttamente il presidente della Repubblica. In Romania, Polonia, Ungheria i ministri si ubriacano, gli ufficiali di carriera rinnovano le divise ogni sei mesi e i baroni vivono come pascià nonostante abbiano dissipato il patrimonio. Ma basta uscire dal «Maxim's» (quello di Bucarest) o dal «Moulin Rouge» (quello di Budapest) per imbattersi in una plebe disperata, abbandonata a se stessa. L'Europa di Simenon è fatta di un Ovest dove la società è dominata da un ceto medio attivo, che fa sì che anche l'ultimo dei contadini abbia qualcosa di aristocratico e che il più miserabile dei clochard mangi pane a salame e beva un bicchiere di vino rosso, e un vasto, slabbrato lembo orientale dove una cerchia di privilegiati «fa come a Parigi» mentre il resto della popolazione vive in condizioni disumane.
Il rimedio? Simenon non nasconde la simpatia per il suo Belgio, pieno di operai organizzati da capi di partito che non sono ideologi, ma strumenti di affermazione economica di chi li vota, nonché di contadini scaltri, organizzati da parroci disegnati come efficienti imprenditori. Chissà se sarà esportabile, quel modello, a Vilnius. Il comunismo, allora? Dalle vie di Odessa vengono rimossi cinquanta cadaveri al giorno, sono i russi che muoiono letteralmente di fame, meglio stare alla larga.
E poi, nel 1933, c'è Hitler, cioè il Messia, come lo chiama sarcasticamente Simenon, impegnato a mettere in riga un popolo che l'inflazione (ma forse anche Freud, il cinema espressionista, il nudismo e la cocaina) avrebbe trasformato in una masnada di debosciati di cui il serial killer Haarmann, cioè il mostro di Düsseldorf reso famoso dal film di Fritz Lang, costituirebbe l'epitome. Se Haarmann è la malattia, Hitler è il rimedio. Un rimedio omeopatico? Klaus Mann, in una pagina raggelante, osservò che fra i due la somiglianza fisica saltava agli occhi.
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