Nel 1945, a guerra appena finita, le forze americane d'occupazione diedero ordine che dal santuario giapponese di Yasukuni venissero eliminate dalle lanterne votive le iscrizioni che ricordavano oltre due milioni di caduti in battaglia. I sacerdoti scintoisti custodi del tempio coprirono le iscrizioni con lo stucco, poi appesero al cancello d'ingresso una tavoletta di legno con una scritta: «Zona vietata a tutto il personale e ai veicoli alleati». Scommettevano sul fatto che l'occupazione non sarebbe durata in eterno, e che lo stucco si sarebbe potuto rimuovere con facilità...
Oggi i tronchi dei ciliegi del tempio portano etichette bianche con i nomi dei reggimenti dell'esercito imperiale e i registri in esso conservati elencano tutti i caduti, nonché i suicidi e quanti «hanno patito le difficoltà dell'era dell'Armonia Luminosa», il nome ufficiale del regno di Hirohito. Fra questi figurano anche i giustiziati come «criminali di guerra», a cominciare da Hideki Tojo, che fu primo ministro e capo di stato maggiore durante il Secondo conflitto mondiale, e che accettò, d'intesa con gli Stati Uniti, di dichiararsi responsabile dell'entrata in guerra del Giappone scagionando così l'imperatore da ogni accusa in materia. Tojo venne impiccato e quarant'anni dopo, come ha scritto Alberto Pasolini Zanelli in quel bel libro che si chiama Imperi (Settecolori editore), gli americani, nella persona di chi era stato allora il suo avvocato difensore, Aristides George Lazarus, lo onorarono a Tokyo con una cerimonia privata che aveva però il valore di un pubblico riconoscimento.
Yasukuni è il luogo dove nel 1998 Hiroo Onoda volle portare Werner Herzog, che si trovava allora nella capitale per mettere in scena Chushingura, un'opera del compositore Shigeaki Saegusa, «la più giapponese di tutte le storie giapponesi», secondo il regista tedesco. In breve, quarantasette servitori di un signore feudale costretto al seppuku vendicano a due anni di distanza il loro padrone uccidendo il nobile che lo aveva insultato. Dopodiché si tolgono a loro volta la vita...
Hiroo Onoda? È probabile che a un lettore di oggi questo nome non dica nulla, ma prima di fare un po' di luce in materia, vale la pena raccontare come Herzog fosse arrivato a lui tramite, appunto, Saegusa. Era successo che quest'ultimo una sera si fosse presentato in ritardo e super eccitato a una cena con il regista tedesco. Portava la notizia che l'imperatore avrebbe volentieri ricevuto «l'importante ospite occidentale», in un'udienza privata. Quasi senza rendersene conto, Herzog aveva minimizzato: cosa poteva dire all'imperatore se non parole formali, di nessun valore e quindi, grazie, ma diceva di no, come si sarebbe potuto dire no all'invito del presidente della Repubblica tedesca, o francese, o italiana... «Avevo rifiutato. Fu una gaffe così terribilmente stupida che al solo pensiero, ancora oggi, vorrei sprofondare sottoterra». Nel silenzio che seguì quel rifiuto, «un silenzio da far rabbrividire», come se «tutto il Giappone avesse cessato di respirare», si alzò dopo un po' una voce. Chi, se non l'imperatore poteva suscitare il suo interesse? Esisteva davvero un'altra figura che simbolicamente potesse giustificare e quasi lenire quel rifiuto? Herzog sostiene di aver riposto allora «senza riflettere», ma non ne siamo così sicuri. «Hiroo Onoda» fu il nome che pronunciò, e qui di simbolico, in un Paese che vive di complicati quanto radicati rituali, c'è tutto e anche di più, con buona pace del distratto e/o smemorato lettore dei nostri tempi. Onoda era l'ultimo giapponese, il combattente solitario di una guerra protrattasi per quasi trent'anni oltre lo scoppio della pace; il tenente che accettò di arrendersi solo quando il suo comandante di un tempo, da anni in pensione e ormai ottantenne, si recherà nelle Filippine per riportarlo finalmente a casa; il reduce che passerà la seconda parte della sua vita fra il Mato Grosso e una scuola di sopravvivenza in patria, si sposerà, rifiuterà onori e cariche, morirà convinto, a novantun anni, che con il dopoguerra il Giappone aveva perso la propria anima, quella stessa anima che dai venti ai cinquant'anni lui si era trascinato in una foresta dell'Estremo Oriente nella convinzione che il suo Paese non si sarebbe mai arreso...
Nel santuario di Yasukuni, il nome di Onoda era stato registrato una prima volta nel 1959. Allora lo avevano dato per morto... Oggi quel santuario custodisce ancora i resti della sua uniforme a brandelli, innumerevoli volte rammendata durante i lunghi anni nella giungla...
Se c'è un intellettuale occidentale in grado di comprendere che cosa ci fosse dietro la solitudine orgogliosa, insensata e guerriera di Onoda, questi è senz'altro Herzog, nonostante il pasticcio legato al suo scambiare l'imperatore del Giappone per un politico qualsiasi. Herzog è il regista di Fitzcarraldo, «l'eroe dell'inutile» costruttore di un teatro dell'opera in mezzo alla foresta amazzonica; lo scrittore che andò a piedi da Monaco a Parigi nella convinzione che così facendo avrebbe salvato una vita umana, quella dell'amica Lotte Eisner, gravemente malata; l'uomo che è voluto entrare in un vulcano attivo e convivere con gli orsi grizzly... Esperienze estreme, confronti fra uomo e natura, viaggi fra passato e presente, fra realtà e sogno sono il suo modo di scandagliare la condizione umana.
Il crepuscolo del mondo (Feltrinelli, pagg. 114, euro 14, traduzione di Nicoletta Giacon) è il diario-romanzo di questo incontro che ha come filo conduttore «una spada da samurai, proprietà della sua famiglia dal XVII secolo», che Onoda portava con sé da quando la guerra era scoppiata e che per i successivi ventinove anni postbellici conserverà nascosta, perfettamente oleata perché non si arrugginisse... Onoda non è un prototipo del nazionalismo giapponese, tanto meno del Giappone imperiale, ambedue figure della modernità: la dinastia imperiale non ha avuto in fondo che tre imperatori e il primo, l'imperatore Meiji, non era che il nonno dell'ultimo, Hirohito... Appartiene invece di diritto a ciò che l'aveva preceduto, ma non gli assomigliava: spirito di casta, stoicismo marziale, fierezza dei costumi, codici di fedeltà personali. È il Giappone degli shogun, ignaro del mondo esterno come della vera guerra, dove mai erano state costruite grandi navi, per essere sicuri che i sudditi non potessero evadere... Come scrive Herzog, «Onoda sa che vi fu un tempo in cui le armi da fuoco, già ampiamente utilizzate in Giappone, quasi di punto in bianco vennero abbandonate. All'inizio del XVII secolo, senza che fosse stata presa alcuna decisione formale, i samurai rinunciarono alle armi da fuoco». È anche per questo che per lui lo spirito del Giappone si racchiude nel kendo: «Il kendo gli mostrò che tutte le azioni belliche devono essere ridotte all'essenziale: due uomini che tirano di scherma con i bastoni».
Il combattimento individuale, l'essere soli, il doversi e il sapersi mimetizzare trasformeranno negli anni Onoda nel «fantasma della foresta», di cui si parla sottovoce, di cui le truppe filippine parlano «con l'affetto che si mostra a una mascotte». Eppure, «nei quasi trent'anni della sua guerra solitaria, Onoda sopravviverà a un totale di centoundici imboscate»...
Sopravvivere nella giungla significa anche combattere contro il tempo. «La foresta vergine non conosce il tempo, come se entrambi, simili a fratelli divenuti estranei l'uno all'altro, avessero ormai ben poco in comune, come se la loro comunicazione fosse ridotta al massimo, a una reciproca forma di disprezzo». Sino alla fine Onoda riuscirà a tenere conto del tempo che passa, al punto tale che quando, il 9 marzo 1974, il maggiore Teniguchi gli ordina il «rompete le righe» che lo toglie dalla foresta per riconsegnarlo al mondo conosciuto, può osservare, per quanto sconcertato, di essere «indietro di cinque giorni sul suo calendario». Ma è anche vero però, come il maggiore gli replica, che «è indietro di ventinove anni».
Se il tempo resiste, è la memoria e la realtà che si deformano. «Dove inizia ciò che è tangibile, e dove comincia il ricordo di ciò che ne conserviamo? Si era chiesto spesso se la sua infinita marcia nella giungla non fosse stata che un'illusione».
L'uomo che scovò Onoda nell'isola filippina di Lubang si chiamava Norio Suzuki ed era uno studente fuori corso. Si era ripromesso tre obiettivi nella vita: incontrare Onoda, andare sull'Himalaya in cerca dello Yeti, osservare un panda nel suo habitat naturale, le montagne della Cina. Centrò il primo, gli fu fatale il secondo, travolto da una valanga ai piedi del Dhaulagiri. Onoda era da poco tornato alla normalità del Giappone, diventatagli subito più incomprensibile della sua esistenza nella giungla. Andò in Nepal, salì con uno sherpa oltre i cinquemila metri, arrivò lì dove Suzuki era stato sepolto.
Davanti alla piramide di pietre che era la sua tomba, per Onoda «fu come se il cielo lo prendesse a pugni, come se l'imponderabile natura delle montagne di neve lo lacerasse in due». Poi fecce un passo in avanti, verso il tumulo, si irrigidì e «per un attimo le nuvole si aprirono lasciando filtrare una timida luce».
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