Ma anche no. Questo, signore e signori, sarà l'ultimo tour della carriera. Poi forse. Poi si scherzava. Poi inizia un altro giro di concerti e tanti saluti all'addio definitivo. Nell'epoca della fine postdatata anche le rockstar fanno la loro parte e ormai nulla è più incerto degli addii, specialmente se sono annunciati sul palco.
Stasera arriva finalmente a San Siro il più clamoroso degli ultimi annunciatori, ossia Elton John che a gennaio 2018 aveva annunciato il Farewell Yellow Brick Road Tour, partito a settembre e destinato a durare per trecento concerti fino al 2021. Poi, ovvio è arrivata la pandemia, la musica dal vivo si è spenta e, adesso che Elton John è tornato a esibirsi dal vivo, la serranda dovrebbe definitivamente abbassarsi l'8 luglio del 2023. Forse. Ma anche no.
Nel frattempo, secondo Pollstar, che è l'ufficio contabilità dei concerti, Elton John avrebbe già incassato 358 milioni di dollari con circa 180 show in mezzo mondo. E stasera, in un San Siro praticamente esaurito, Sir Elton salirà sul palco dopo essere apparso (solo in video) al concertone ufficiale per il Giubileo di platino di Queen Elisabeth. Da regina a re. Senz'altro Reginald Kenneth Dwight, che nel 1972 ha cambiato il proprio nome in Elton John, farà il concerto regale di un signor professionista che ha venduto trecento milioni di dischi da quando ha iniziato a pubblicarne da solista, ossia dal 1969.
Dopotutto, con un repertorio che passa da Rocket man a Don't let the sun go down on me, Crocodile rock, Candle in the wind, Tiny Dancer, Sacrifice fino a Your song e Cold heart impastata l'anno scorso con la voce di Dua Lipa, ogni concerto di questo artista sontuoso è una compilation di memoria, entusiasmo, nostalgia e pure sano voyeurismo perché guardi Elton e vedi un'epoca della musica che si sta chiudendo. Irripetibile. Ma forse allungabile, chissà.
Oddio, Elton John non è Mick Jagger dei Rolling Stones (che a 78 anni salta come un grillo pure dopo due ore in uno stadio) ed è pedinato da problemi alla schiena che ogni tanto lo obbligano pure alla carrozzella.
Però ormai si è capito che l'addio definitivo alle scene è come una cambiale senza data di scadenza: si proroga a piacimento. I primi ad annunciare il ritiro definitivo «per non diventare la parodia di noi stessi» sono stati nel 1982 gli stessi Who che il 22 aprile scorso, ossia quarant'anni dopo, hanno messo in vendita biglietti fino a novembre.
Da allora il cosiddetto «Farewell tour», ossia il tour dell'addio, è stata una carta giocata nell'ordine da Kiss, Scorpions, Lcd Soundsystem, Motley Crue, Ozzy Osbourne e via elencando, tutti poi ritornati sui propri passi e quindi sulla catena di montaggio della musica: dischi, apparizioni, concerti, festival. C'è chi, come Cher, ha impiegato circa 5 anni a decidersi che il «farewell» fosse davvero definitivo. E chi, come Tina Turner, ha invece rispettato i patti e ora si gode in Svizzera la vita che tanto tempo aveva messo tra parentesi. Anche in Italia c'è il partito dei «definitivi», come i Pooh che hanno annunciato lo scioglimento definitivo e si sono sciolti per davvero continuando (legittimamente) a fare musica per conto proprio. E quello dei «possibilisti», come i Litfiba, hanno iniziato l'«Ultimo girone» dopo quarant'anni dicendo però che magari, forse, chissà, ci si rivede per il cinquantennale.
In poche parole non è facile chiudere baracca e burattini dopo aver alzato il sipario per decenni di fronte a platee oceaniche. Il pubblico è una droga per chi è abituato ad averlo di fronte ad applaudire. Anche prima, quando i tour erano meno kolossal e attraversavano meno fusi orari, c'era chi annunciava l'addio alle scene. Ad esempio Frank Sinatra lo fece nel 1971 giurando che «è una decisione seria. Ci sono tante cose che vorrei fare nella mia vita. Voglio incontrare una ragazza e costruire una casa da qualche parte». Due anni dopo era di nuovo in tour e ci sarebbe rimasto praticamente fino alla fine. Anche Elton John disse lo stesso nel 1977: «Ho deciso che quello di stasera sarà il mio ultimo concerto». Anche a lui bastarono due anni per tornare dal vivo: «Però quando dissi di ritirarmi ero un tossico». Scusato.
Di certo, la generazione dei grandi eroi da palcoscenico non vede all'orizzonte chi gli possa rubare il posto e basta dare un'occhiata ai calendari musicali per rendersi conto che i giovani in grado di «tenere» uno stadio oppure una platea gigantesca sono sempre meno.
La musica è sempre più liquida e sempre più solitaria, individuale, non condivisa e quindi distante dal rituale dell'oceano di mani sotto al palco. I tempi cambiano, ma le rockstar no. Forse per questo le ultime che restano hanno sempre meno voglia di andare in pensione.
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