Nel 1901, dopo un soggiorno di due anni a Roma, Thomas Mann pubblica il suo primo romanzo (mille pagine): I Buddenbrook. E così s'apriva il grande secolo della letteratura tedesca, quello di Kafka, Rilke, Hofmannsthal, Musil, Döblin e Brecht. Per decenni fu la letteratura egemone. Poi Hitler, la disfatta del Reich, la fine della Germania. Muri e dittature. Lenta ripresa, letterariamente faticosa con la narrativa di Böll e Grass. In Austria, intanto, qualcosa si muoveva con i romanzi, i racconti, i drammi di Thomas Bernhard (1931-89): era una narrativa, fondata sull'ossessione, che proponeva un percorso sussultorio con una struttura letteraria intrigante, eppure mai accattivante. Nel 1986 Bernhard pubblica finalmente il romanzo della vita, l'ultimo, Estinzione. Uno sfacelo, che esce oggi da Adelphi (nella mirabile traduzione di Andreina Lavagetto) che si è imposto come il romanzo più significativo della fine del secolo tedesco, tra Verfall e Zerfall, partendo dalla crisi della famiglia e approdando alla sua «estinzione», rappresentata da Mann e da Bernhard.
Sarebbe bello se non fosse così. Sarebbe bella una famiglia-mulino-bianco. Ma così non è più. La famiglia borghese è decaduta, è in sfacelo senza redenzione. Mann scrisse a Roma di una nordica, baltica, gotica città, Lubecca; Bernhard scrive nel suo solitario rifugio nei boschi austriaci di una Roma improbabile che purtroppo è esistita solo nella mente e nella scrittura di Bernhard. Certo sono passati 34 anni e la città ideale si è contagiata, è divenuta anch'essa uno sfacelo. È una magra consolazione leggere: «Sono rimasto a Roma e non sono più andato via. Roma è la città per la testa, per la testa dell'antichità Roma è stata la città ideale, per la testa d'oggi è di nuovo la città ideale». Grandezza della letteratura.
Estinzione si trasfigura nel simbolo della frantumazione dell'unità familiare, nonché della rottura della comunità tra poeti e la compagine nazionale. Le patrie lettere germaniche consumano la loro inevitabile «estinzione» con un'opera grandiosa che conclude il circolo iniziato da Mann, completando un circuito di decadenza e sfacelo, con i romanzi di Handke che sembrano quelli dell'ultimo sopravvissuto al diluvio.
Flebili, ancorché interessanti voci ogni tanto interrompono il chiasso mediatico come il romanzo, tutto nordico, Tornare a casa (tradotto ora per Fazi da Teresa Ciuffoletti) di Dörte Hansen (1964), che è un tentativo narrativo di tornare nella nordica patria dei Buddenbrook, una patria desertificata poiché ormai «Neanche quel vento antico si curava di cosa facevano le
persone... Quel posto se ne infischiava totalmente dell'inezia umana». Amaro e almeno per ora definitivo bilancio di quella che è stata una grande letteratura sulla struggente decadenza e il grande, irreversibile sfacelo.
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