Marco Paolini va a caccia del «diaol» Per difendere il mondo della Natura

Tratta dal romanzo di Matteo Righetto, un grande film sul rapporto padre-figlio

Pedro Armocida

«Sei un bocia», un ragazzino, dicono sempre a Domenico che invece in quel villaggio nel cuore delle Dolomiti negli anni '50 ha dovuto imparare presto a essere autonomo, indipendente. Insomma grande. La mamma è morta, ma lui non sa come perché siano in un luogo e in un'epoca in cui si fa fatica a fare anche queste domande, e il padre è una sfinge, chiuso tra il lavoro di bombarolo nella cava su in montagna e una bottiglia di vino che suggerisce di bere sempre anche al figlio perché «fa sangue».

È questo l'orizzonte degli eventi in cui si muove La pelle dell'orso, esordio nel lungometraggio di finzione di Marco Segato, regista padovano che ha realizzato diversi documentari oltre ad aver collaborato in vari spettacoli di Marco Paolini che infatti è il protagonista di questo film nei panni del padre Pietro. Tratto dall'omonimo romanzo (Guanda) di Matteo Righetto che di professione, oltre a scrivere per Il foglio, fa l'insegnante di Lettere in un liceo di Padova (e ieri infatti non è potuto intervenire alla presentazione del film a Roma), La pelle dell'orso - nei cinema da giovedì - ne riprende le atmosfere con il racconto del riavvicinamento di un padre e di un figlio durante l'avventurosa caccia all'orso che tutto il paese teme tanto da averlo soprannominato diaol, il diavolo.

«Quando abbiamo iniziato a riscrivere il libro attraverso la sceneggiatura che si è distanziata abbastanza dall'originale, abbiamo immaginato di raccontare un mondo che stava per finire, poco prima del boom economico, attraverso le figure dell'orso, quindi della natura, e del padre, un uomo non sociale. Per loro non c'è asilo nel nuovo mondo», racconta il regista che nel 2007 è stato assistente alla regia ne La giusta distanza di Carlo Mazzacurati, a cui il film è dedicato.

Quello del racconto è un mondo scandito ancora dai ritmi della natura e da una convivenza amorevole con gli animali da allevamento mentre l'orso è la rappresentazione del male, dell'intrusione esterna in una comunità, quindi da cacciare. Racconta Paolini: «Io conosco i cacciatori, uno tra tutti era Mario Rigoni Stern che mi raccontava che si andava a caccia con pochi colpi, perché tanto non hai la possibilità di avere più tempo se ti trovi davanti un orso. Il film è uno sguardo su un mondo chiuso in cui si dicono poche cose e per questo il ragazzo non sa neanche com'è morta la madre. Lo spettatore del film è come lo straniero che si avvicina a quel mondo dove non vengono accolti facilmente quelli che vengono da fuori».

Straniero è in qualche modo anche il vero orso che dalla Kamchatka russa è stato portato in Val di Zoldo, in provincia di Belluno, dove La pelle dell'orso è stato in gran parte girato.

Senza effetti speciali Marco Paolini s'è trovato a lavorare davanti a un orso imponente che «l'ammaestratore Zoltan - racconta l'attore - faceva alzare in piedi con un curioso escamotage, una canna da pesca alla cui estremità era fissata una coca-cola. Da quando l'orso ha lavorato in una pubblicità di quella bevanda ne è golosissimo».

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