Su, parlateci del misterioso dono che tenevate in serbo per il khan, ripeté messer Butirone, curioso e grasso di risata, tutto scoppiettante di tosse.
Non è ancora giunto il momento, feci quasi arrossendo, portate pazienza e sarete ricompensati.
E allora diteci del Gran Vecchio della Montagna. Esiste sul serio? È vero che l'avete conosciuto?
Pochi minuti e il gioviale Butirone entrava in confidenze con chiunque.
Ero arrivato a Mantova due giorni prima, accolto con ogni riguardo dal duca Rinaldo, detto il Passerino, al quale era stato predetto che di lì a qualche anno sarebbe stato trucidato da Luigi Gonzaga e sistemato a cavalcioni di un ippopotamo in una sala del palazzo dopo esser stato gloriosamente mummificato.
Sistemato in una delle stanze più gelose del palazzo Bonacolsi, ai piani alti, affacciata su un giardino pensile di rara meraviglia, mi sentivo di nuovo alla corte del Gran Khan. E a cena, dopo un soave spettacolo di danzatrici turcomanne fatte venire appositamente insieme a tante altre ricercatezze, tutti vollero che iniziassi a raccontare. Ero lì per quello. Non mi feci pregare. Madonna Alisa, sposa del Passerino, mi guardava con certi occhi grandi e lucenti che pareva volesse mangiarmi. I suoi tre figli, Giovannino, Francesco e Berardo, erano così attenti che si sarebbero detti sotto un incantesimo. Ma tutti i commensali, ed erano numerosi, non si sarebbero persi una parola, neanche in cambio di denaro sonante.
Ma certo, risposi tutto serio dopo aver ripulito il mio prezioso piatto (sono sempre andato matto per l'arrosto di fagiano e la galantina di pernici). E sono stato lì lì per lasciarci la pelle. Ma prima sono successe altre cose degne di nota. Mio padre e mio zio mi avevano raggiunto due settimane dopo, come devo avervi detto, nei pressi di Tauris, città di grandi mercati e di giardini fioriti, posta in una piana tra alte catene montuose coperte di neve. L'abitato aveva rigore geometrico, strade diritte, vicoli su cui si aprivano botteghe nelle quali si vendeva seta, cotone, sandalo, taffetà, perle, profumi. Ci trattenemmo alcuni giorni per commerciare. E poi insieme proseguimmo verso sud, attraverso il reame di Mosul, nelle cui montagne, tra inesauribili giacimenti di diamanti e serpenti velenosi, vivevano - e vivono ancora - cristiani di fede nestoriana. Soggiornammo dieci giorni in quella grande e nobile città per concludere un commercio in preziosi e drappi di seta. Poi ci rimettemmo in viaggio, diretti verso Bagdad, la città del califfo di tutti i musulmani, così come il Papa di Roma è il signore di tutti i cristiani. Passammo per Yezd, dove cacciai la selvaggina con la balestra e catturammo qualche asino selvatico. Dormivamo all'aperto, accanto al fuoco. La carovana procedeva lenta. Ed ecco finalmente Bagdad, solare, attraversata dal grande fiume Tigri, che si può navigare fino al mare d'India. Vi si mercanteggiavano oro e pietre preziose in quantità, e vi si producevano, e vi si producono ancora, meravigliosi drappi di seta istoriati con figure fantastiche di animali. Con nostra grande sorpresa, una volta preso alloggio all'albergo degli italiani, ci fu subito comunicato che tutti i cristiani residenti o anche solo di passaggio dovevano presentarsi la mattina seguente al palazzo del califfo, che si diceva avesse in odio la gente cristiana. Disobbedire non era possibile. Passammo la notte in ambasce. Quando venne l'ora, dopo averci radunati nella grande sala delle udienze, dal suo trono il califfo ci disse: «Ho letto nel vostro Vangelo che per un cristiano basta possedere un solo granello di fede per smuovere le montagne. È così?».
Nessuno rispose.
Allora egli mostrò una copia del Vangelo e indicò col dito dove si diceva proprio questo.
«Così è scritto qui. Avreste il coraggio di sconfessare il vostro Dio?».
Tra la folla si fece avanti un domenicano che, inginocchiatosi ai piedi del califfo a mani giunte, confermò che quello che si diceva nel Vangelo era vero, ma solo a patto che se ne comprendesse il vero significato.
«Ah, i soliti sofismi» sbottò il califfo. «Dunque, è vero o non è vero quello che si dice nel vostro libro sacro?».
«È vero, mio signore» rispose il monaco con un filo di voce.
«Bene. Allora dimostratemelo. Ci sarà tra voi qualcuno la cui fede supera per dimensioni un misero granello di senape... Tu, per esempio» disse indicando me.
Mi sentii gelare di paura.
«Vieni avanti, ragazzo, non mordo».
Dopo aver scambiato un'occhiata con mio padre obbedii.
«Più vicino» fece lui. «Ti voglio vedere bene. I miei occhi non sono più quelli di un tempo».
Avanzai ancora di qualche passo.
«Sei molto giovane. Come ti chiami?».
«Marco Polo» risposi.
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