Matita fortunata, attore brillante. Sergio Tofano torna "in scena"

Da uomo di teatro segnò un'epoca, da disegnatore inventò una maschera. E ora spunta un testo sull'arte dell'applauso

Matita fortunata, attore brillante. Sergio Tofano torna "in scena"

Finissimo maestro della vignetta e del palcoscenico, Sergio Tofano (1886-1973) scelse come nome d'arte per i suoi disegni un monosillabo, che su carta diventa un nobile monogramma: «Sto». Elegante, semplice, anche un po' snob, finanche lezioso. Inconfondibile.

Sergio Tofano, che oggi è dimenticato, fu, nella propria epoca, inconfondibile. La tesi di laurea, in Lettere, la fece sul ruolo del «brillante» nella commedia italiana. E lui - brioso, allegro, charmant - fu tra i migliori attori brillanti della sua generazione. Lavorò di gomma più che di matita e alleggerì il ruolo dai toni più plateali rivestendolo di asciutta eleganza: meno prosopopea, più misura. Si chiama stile.

Personaggio più personaggio dei suoi personaggi - paglietta, papillon, calembour e poi villa a Castiglioncello - fu una figura vitale nel mondo dell'illustrazione e dello spettacolo. Già nel 1909, a 23 anni, entra nella compagnia più che prestigiosa di Ermete Novelli (paga: lire 6,50 al giorno...), dal 1912 al 1923 in quella di Virgilio Talli, suo vero mentore, e, dal 1924 al 1926, in quella di Dario Niccodemi. E nel '28 è capocomico.

Contemporaneamente, impegnato per tutta la vita e per tutta la carriera sul doppio fronte dello spettacolo e dell'illustrazione, disegnava costumi e scenari per il teatro, figurini per la moda e «scarabocchi» per i giornali. Nel 1917, a guerra in corso, mentre lavorava per il controspionaggio, reparto Censura, vinse nel giro della Fortuna il suo personalissimo assegno da un milione. Il direttore del Corrierino dei piccoli Silvio Spaventa Filippini (quando nelle redazioni i direttori sfoggiavano anche due cognomi ma meno ego) gli pubblicò la prima di una infinita serie di avventure di uno dei personaggi più celebri del «quadretto» italiano, quando ancora le nuvolette non c'erano, il balloon era considerato diseducativo, e si usavano didascalie in rima al piede dei «quadrati», poi vignette, colorati. E così - era il 28 ottobre 1917 - cominciò l'avventura del signor Bonaventura «che cogliendo un gelsomino/ alla loggia del vicino/ Troppo sportosi di fuore/ per raggiungere quel fiore/ capitombola di sotto/ lui, col fido suo bassotto...».

Caporetto aveva appena infranto i sogni degli italiani e il Paese aveva bisogno di sperare: cosa di meglio che fantasticare sulle quotidiane disavventure di un signor qualunque - bombetta, redingote e cagnolino - a cui la buona ventura porta ogni settimana, in ottonari a rima baciata, un assegno da un milione? Adeguato, nel '46, a un miliardo, causa inflazione. Come ricordò, a posteriori, Oreste Del Buono, Chief Executive Officer del fumetto italiano, «Bonaventura sarebbe stato l'eroe di tre generazioni di marmocchi e di non so quante degenerazioni di nonni». Le avventure della popolare maschera di «Sto», saltando dalle pagine del Corrierino al palcoscenico, continuarono anche a teatro, alla televisione e al cinema. E non si parlava ancora di multimedialità e cultura convergente. Come scrive Giampiero Mughini nel suo Nuovo dizionario sentimentale (Marsilio), che a Sergio Tofano dedica un capitolo, «Lui che era un figlio del Novecento, vi avrebbe giurato che non ci sono canali divisori nella comunicazione, e che è un tutt'uno scrivere romanzi, opere teatrali, strisce a fumetti, cose che sapeva fare tutte. Lui che era un figlio del Novecento, lo sapeva che se Leonardo fosse nato in questo secolo avrebbe girato degli spot pubblicitari o dei videoclip, e perciò è stato grandissimo quando ha disegnato delle vignette e delle illustrazioni a supporto pubblicitario della Campari».

E infatti, mentre il suo fortunatissimo personaggio conquistava lettori con piccole eroiche peripezie, Sergio Tofano continuava a disegnare anche la propria di avventura: di attore, autore teatrale, costumista, scenografo, regista, insegnante all'Accademia di Arte drammatica (con allievi come Vittorio Gassmann, Nino Manfredi, Monica Vitti). Sempre con un successo discreto, come da carattere.

Tofano conosceva bene le meraviglie, i vezzi e i trucchi del mondo dello spettacolo. Tanto che a un certo punto di quella tournée continua che gli attori chiamano vita sfoderò un lungo, scrosciante articolo dedicato alla Meccanica dell'applauso, un testo apparso nel 1939 su «La Lettura», il mensile del Corriere della sera, e da allora mai più riedito, fino a ora (lo ripropone la casa editrice Henry Beyle, con una imperdibile nota dal titolo «Contro l'applauso» di Toni Servillo).

E se sfogliando i disegni di Tofano ci si imbratta felicemente le dita di umorismo, ironia, sberleffi futuristi e assurdi surrealismi, nella sua irresistibile fenomenologia dell'applauso si è investiti da un uguale e contrario amore e disincanto per i riti del palcoscenico, davanti e dietro il sipario. Attraverso i vari tipi di applauso - «d'uscita», «a scena aperta», «di andata via» e «di fine atto», tenendo conto che alcuni sono onesti altri disonesti, visto che «nel novanta per cento gli applausi che sentite fare in teatro sono creati artificialmente, come le perle di coltura» - Sergio Tofano in arte «Sto» ci svela tutte le furberie di quella delicata commedia che è il rapporto fra attore e pubblico. Che cambia ogni sera, ma che ogni sera cerca lo stesso consenso. «Ci sono attori che batterebbero moneta falsa per avere il loro panetto quotidiano». È una breve storia del teatro italiano, alla maniera di un vero artista, fra effetti forzati, battimani chiamati, segnali d'attacco, autoclaque, l'infida «carrettella» («di tutti i virtuosismi teatrali il più infallibile»), espedienti da tre soldi e raffinati artifici. Che spettacolo! E chissà perché ci viene in mente l'irresistibile episodio del film I mostri di Dino Risi - titolo: «La raccomandazione» - con un Vittorio Gassman-Otello che spiega al capo claque come tirare l'applauso della platea e alla «servetta» in desabillè come non rubarglielo. Capolavoro.

E per il resto, come spiega un Toni Servillo perfettamente in parte nella nota finale al testo, purtroppo in Italia lo spettatore capace di stupirsi e di giocare con i trucchi degli attori ormai è pressoché inesistente: «A prevalere è piuttosto un popolo di ammiratori, che indistintamente acclama tutto e il suo contrario, che non desidera creare un momento di comunità, quanto piuttosto vuole, applaudendo, sentirsi a sua volta protagonista».

Un'amara costatazione che, traslando l'esempio dal teatro alla società, è perfetta anche per lo show quotidiano che ci offrono i nostri vip, politici e intellettuali. Danno spettacolo. Desiderano solo consenso. E raccolgono finti applausi.

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