Sembrano fatte davvero l'una per l'altra. Tutt'e due procaci, abili, determinate. Tutt'e due fieramente del Sud. Luisa, insomma, assomiglia davvero a Lolita: e anche se l'attrice partenopea non lo dice, si sente che la poliziotta barese potrebbe diventare, per lei, il personaggio della svolta. Ecco allora come ne Le indagini di Lolita Lobosco (regia di Luca Miniero, protagonista Luisa Ranieri con Filippo Scicchitano e Lunetta Savino) dal 21 febbraio per quattro domeniche la curvilinea e agguerrita vicequestore dei romanzi di Gabriella Genisi attraverserà, con ampia falcata da tacco dodici, la fiction di Raiuno.
Che tipo è, questo poliziotta vistosa come un'attrice?
«È innanzitutto una donna d'oggi. Di più: una donna del Sud d'oggi. Lavora in un ambiente prevalentemente maschile senza complessi di sorta. Al contrario: per lei portare la quinta di reggiseno, indossare i tacchi a spillo e, come non bastasse, chiamarsi Lolita, diventa quasi una provocazione. Che serve però a raccontare un femminile che non ha bisogno di copiare il maschile, per essere autorevole. Una donna che non ha la necessità di mascherarsi da uomo, per affermarsi come donna».
Lolita, però, è anche l'ennesima poliziotta in una fiction di Raiuno che rischia di saturare il genere...
«Ma in Lolita il giallo è solo un pretesto. Le sue indagini sono quasi sullo sfondo di ciò che c'interessa davvero: il ritratto di una femminilità moderna, all'interno d'un racconto leggero ma anche riflessivo. Invece del vicequestore, Lolita avrebbe potuto fare anche il chirurgo. O l'architetto».
Tuttavia non le sembra che anche nella fiction quello dell'emancipazione femminile rischi di diventare un luogo comune, di sfiorare lo stereotipo?
«Io sono di quelle che credono più all'armonia tra uomo e donna che non alla lotta fra sessi. Insomma: non è vero che femminile è figo e maschile no. È la parità, che conta. E una parità che non c'è bisogno di proclamare: basta attuarla nel quotidiano. A partire dalle situazioni più banali, dai gesti più comuni».
Lolita ha un marcato accento barese. Ora, sarà per colpa di Lino Banfi, ma questo dialetto viene subito collegato ad un prodotto comico. È stata una difficoltà per il personaggio?
«Inutile negarlo: abbiamo ragionato molto sul rischio che questo accento poteva rappresentare. Lolita torna in Puglia dopo alcuni anni, e doveva parlarlo per forza. Io stessa quando sono a Napoli riacquisto automaticamente l'inflessione partenopea. Così, aiutata dal coach Totò Onnis, l'ho dosato scena per scena: accentuandolo nei momenti da commedia, ammorbidendolo in quelli più sentimentali o malinconici, dove calcare sarebbe stato stridente. Solo negli attimi di stanchezza - tutto il giorno su quei tacchi: mica uno scherzetto - Lunetta Savino mi riprendeva: Non stringere troppo le vocali: vai a finire sul molfettese!».
Giocando sul fatto che la produzione è anche della Zocotoco, fondata da lei con suo marito Luca Zingaretti, e che è ambientata al Sud, qualcuno già definisce Lolita «l'erede» di Montalbano.
«Chi seguirà la serie non troverà in Lolita nulla di Montalbano. Ed è naturale. Montalbano è un personaggio quasi metafisico: ha un'identità idealizzata, opera in una realtà che non è reale. Perfino i suoi ascolti sono fuori del normale. E non lo dico perché si tratta degli ascolti di mio marito: lo dicono i numeri. Tuttavia, anche se inapplicabile, il paragone non mi disturba. Anzi: mi onora. Magari fossi davvero la sua erede!».
Siete stati fra le prime fiction a partire dopo il primo lockdown. E a lavorare anche durante il secondo.
«Lavorazione faticosissima, ma perfino con qualche vantaggio.
Quando abbiamo continuato a girare nonostante le chiusure, isolandoci dalle famiglie, si è creata fra noi un'unione che ci ha reso più forti. Forse anche per questo, per la prima volta nella mia carriera, ho affrontato un personaggio senza mille studi, ma d'istinto, in piena libertà. Come un cavallo pazzo».
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