"Il mio romanzo interessato alla filosofia attraversa la dura rinascita dopo un lutto"

La scrittrice (ora) canadese parla de "Il libro della forma e del vuoto": "Dopo la pandemia la salute mentale è una delle più grandi sfide umane"

"Il mio romanzo interessato alla filosofia attraversa la dura rinascita dopo un lutto"

Nel recensire Il libro della forma e del vuoto (e/o, traduzione di Tiziana Lo Porto), presentato al Salone di Torino (e domani l'autrice sarà a Verona, poi a Rovereto), il New York Times ha definito Ruth Ozeki «animatrice». Non perché scriva storie a fumetti, ma perché è in grado di domare un'anima agli oggetti e, come li chiama lei, monaca buddista zen, agli esseri non senzienti, come gli alberi. Americana-canadese, ultracinquantenne, la Ozeki ha scritto quattro libri, tutti densissimi, certo per qualità, ma a volte anche, come è il caso di questo ultimo, per quantità di pagine. In Italia ne sono stati tradotti tre, di cui il primo, Carne, alla fine degli anni '90 da Einaudi: un libro che oggi verrebbe detto di auto-fiction, in cui l'autrice racconta un percorso iniziatico alla scoperta di come e perché la carne sia diventata cibo e di come e perché non siamo più in grado di vederlo, questo percorso.

La spiritualità, intesa come soffio vitale che ci risveglia ad una comunione con ciò che ci circonda, è al centro anche del nuovo romanzo. Il protagonista, Benny Oh, è un tredicenne alle soglie di un percorso di formazione straordinario: alla morte del padre, qualcosa accade in lui e comincia a sentire voci provenire dalle scarpe o dalle foglie di insalata. Di quegli oggetti prova il dolore, il Male, la gentilezza. Finché comincia a sentire anche la voce di un Libro. E il vero cambiamento ha inizio.

Difficile dire a quale genere appartenga questo libro.

«È la storia di un ragazzo e di sua madre che guariscono dal dolore. È una esplorazione di alcuni principi della sofferenza. È un libro sulla salute mentale. Ma è anche un libro sulla creazione artistica e sul processo che conduce alla letteratura. Io lo definirei un romanzo interessato alla filosofia».

Chi è Benny?

«Il romanzo ha due voci: quella di Benny vecchio, che parla in prima persona, in retrospettiva, e dice Sono sopravvissuto per raccontare questa storia. E poi Benny ragazzino, fin dall'inizio un outsider: è un solitario già prima che muoia suo padre e dopo, quando comincia a sentire le voci, le cose non possono che peggiorare».

Il ruolo della letteratura sarà salvifico.

«Il romanzo è focalizzato sul book becoming, il divenire di un libro, la sua nascita, trasformazione e crescita: che cosa viene prima? Il Libro o il ragazzo? È il Libro che sta creando il ragazzo, è viceversa o è una mutua co-creazione? Il Libro è un personaggio e ha un'opinione: che l'Autore sia una specie di suo surrogato. Da dove vengono i libri? Che cosa succederebbe se tenessimo l'autore fuori dall'equazione e lo rendessimo periferico alle storie? Il Libro salva Benny, come nella mia storia personale: quando ero ragazza mi isolavo per scrivere e leggere e questo mi permetteva di sopravvivere, mi dava un senso di comunità».

Anche la salute mentale è parte del processo. Un tema di forte attualità dopo la pandemia.

«È una delle più grandi sfide umane, con cui dovremo imparare a convivere. Ho iniziato a scrivere questo romanzo otto anni fa, ben prima della pandemia, dopo che è morto mio padre. Mi mancava moltissimo e ho cominciato a sentire la sua voce. Mentre lavavo i piatti, sentivo che lui era dietro di me. Mi giravo e ovviamente non era lì, ma il mistero non si affievoliva».

Ha pensato che stava perdendo la ragione?

«Ho cominciato a riflettere su che cosa significhi sentire le voci.

Come scrittore, nella mia testa sento voci tutto il tempo: hanno volontà, emozioni e sembrano reali. Che cosa accadrebbe se vivessi in una cultura in cui scrivere fiction significasse mentire, per cui gli scrittori venissero messi in prigione o in manicomio e i lettori indicati come cospiratori?».

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