È vero secondo me che nel Novecento l'Italia è stata il Paese europeo in cui meno la teologia ha influenzato il mondo della letteratura e quello delle arti. Sono stati necessari alcuni grandi critici letterari provenienti dal mondo anglosassone e non dichiaratamente credenti, George Steiner, Harold Bloom e Northrop Frye, a doverci ricordare che la Bibbia è stata il grande codice della cultura occidentale. Se pensiamo invece ad altre grandi nazioni europee, dalla Francia all'Inghilterra a tutto l'Est europeo e alla Russia, c'è stata una fortissima incidenza da parte della teologia sulla letteratura, sul modo stesso di concepire l'espressione narrativa. Discorso che vale anche per il mondo nordamericano, da Flannery O'Connor a Francis Scott Fitzgerald, da Marilynne Robinson a Toni Morrison, da Alice Munroe a Joyce Carol Oates, fino al compianto David Foster Wallace, autore di una tesi su sant'Agostino. D'altra parte, la letteratura è sempre in qualche modo religiosa. Pensiamo perfino a un autore come Stephen King, che ha uno dei suoi punti di forza nelle manipolazioni di temi religiosi o comunque attinenti alla sfera del sacro, primo fra tutti la morte. Per non parlare di Philip Dick, che qualcuno ha definito il Kafka del XX secolo. O anche il Cormac McCarthy de La strada, un viaggio di un padre e di un figlio alla ricerca di una vita possibile sul fi lo della fine del mondo.
Scrittori e Vangeli: resta insuperabile Luigi Santucci col suo Volete andarvene anche voi?. Ma vale la pena anche rileggersi le opere di Ferruccio Parazzoli, che fra l'altro su questa rivista qualche anno fa denunciava l'esistenza di «una letteratura dai tetti in giù», proprio a proposito della narrativa italiana contemporanea. Più che riscrivere i Vangeli, oggi gli scrittori ne prendono spunto. Uniche eccezioni Sandro Veronesi con Non dirlo sul Vangelo di Marco e soprattutto Emmanuel Carrère col suo Il regno, un'inchiesta sul Vangelo di Luca condotta mescolando indagine storica e racconto autobiografico, caratteristica peculiare dell'autore francese (basti pensare a Limonov e a L'avversario). In questo caso, però, la sua diventa una severa investigazione sulla sostanza dell'annuncio cristiano, un vero corpo a corpo la cui lettura spinge anche i credenti a interrogarsi con la medesima serietà. Così egli si misura con la figura di Gesù attraverso l'evangelista Luca e con lui san Paolo. Ma qui non interessano tanto gli studi storici che compie Carrère, affascinato soprattutto dalla lettura elaborata da Renan; nemmeno la fondatezza e la solidità della sua ricostruzione. Le parti più singolari sono le sue riflessioni sulla verità del messaggio cristiano, a partire dalla straordinaria diffusione nei primi secoli. «Ciò che mi sorprende» scrive a un certo punto «non è che la Chiesa sia così diversa da com'era alle origini. Al contrario, è che si sia fatta un dovere di essere fedele a quel suo passato, anche se poi non ci riesce. La Chiesa non ha mai dimenticato le sue origini».
Divo Barsotti, il mistico e teologo morto nel 2006, in un'intervista mi diceva proprio la stessa cosa. Lui addirittura era perfino più radicale, sosteneva che l'ultima grande leggenda cristiana, ove per leggenda intendeva ovviamente non un dato puramente mitologico, ma un grande modello capace di dare una grande spinta creativa, era stata quella francescana. Quindi risaliva molto, molto indietro, ripensava a tutto quello che era avvenuto dopo, con Giotto e Beato Angelico, l'Umanesimo e il Rinascimento, e diceva che l'ultima grande leggenda in questo senso poteva essere considerata quella chassidica, che aveva prodotto l'arte di Chagall, la letteratura di Kafka, la musica di Béla Bartók, il pensiero di Buber e di Heschel, quindi una grande realtà creativa, non solo filosofica, ma anche artistica. Non so se tutto ciò che diceva è vero, probabilmente aggiungerei che l'ultima grande spinta capace di unire cristianesimo e letteratura è venuta dalla Francia nel Novecento, attraverso Bernanos e Mauriac, Julien Green e Claudel, solo per citare i più famosi. Ed è certamente dalla letteratura francese che ci giunge un'aria nuova. Ne avevamo avuto un esempio con Christian Bobin e Alexandre Jollien, entrambi conosciuti da noi soprattutto grazie all'editrice Qiqajon, fautori del primato dell'interiorità, della necessità di una trasformazione umana prima che politica. «Sarebbe l'ora» ha detto Bobin in una recente intervista su «La Croix» «di rimettere al centro vitale della nostra società coloro che servono, coloro che rammendano senza fine il tessuto dell'esistenza, coloro che non vivono in base ai budget e alle slide». Senza essere tecnofobi o conservatori, Bobin e Jollien vogliono senza presunzione insegnarci Il mestiere di uomo e tessono l'Elogio della debolezza, come si intitolano due libri dello scrittore-filosofo svizzero che porta i segni dell'handicap. Entrambi non credenti, scrivono libri marcati di vera spiritualità. Qualche mese fa, poi, è stato lo scrittore Michel Houellebecq, in un'intervista al settimanale tedesco «Der Spiegel», a parlare di «un curioso ritorno del cattolicesimo», sposando con forza nel suo ultimo romanzo Serotonina (pubblicato in Italia da La nave di Teseo) «il punto di vista di Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all'insensibilità dei cuori, il suo dare la vita per i miserabili». E vale la pena ricordare anche un filosofo esplicitamente non credente, François Jullien, che ci ha sorpreso con il suo libro Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede (Ponte alle Grazie). Assai conosciuto per i suoi lavori sullo scarto fra la cultura occidentale, segnata dalla Grecia, e quella cinese, ora riapre al cristianesimo come punto essenziale per la cultura europea e lo fa rileggendo il Vangelo di Giovanni. Un po' come aveva fatto Carrère con quello di Luca: ma se Il regno aveva l'impronta dello scrittore, il saggio di Jullien ha il tratto del filosofo. Sulla scia di pensatori come Agostino, Pascal e Kierkegaard e, per venire più vicino a noi, di Jean-Luc Marion, Jean-Louis Chrétien e Michel Henry, Jullien parla del cristianesimo come di una questione centrale, anzi esplosiva, per il pensiero contemporaneo, portato spesso a liquidarla come appartenente al passato.
La peculiarità del libro di Jullien è che il suo approccio come si comprende dal sottotitolo elude preliminarmente la scontata disputa fra credenti e non credenti. Egli non ha in mente di riproporre una filosofia cristiana e nemmeno anticristiana: inoltre, più che di valori o radici, preferisce parlare di risorse, un termine che piacerebbe a papa Francesco.
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