Mario Missiroli - ricorda Francesco Perfetti nella magistrale Introduzione al Colpo di Stato, un breve saggio pubblicato da Piero Gobetti nel 1924 e riproposto ora dalle Edizioni di Storia e Letteratura - fu il primo analista politico a vedere nel fascismo non tanto una reazione al «biennio rosso», quanto «un movimento, espressione dei ceti medi». Non è privo di significato che «uno dei capisaldi del rinnovamento storiografico operato molti decenni dopo da Renzo De Felice nel campo negli studi sul fascismo riguardasse proprio la caratterizzazione del fascismo come espressione dei cosiddetti ceti medi emergenti».
Nel 1921 Missiroli aveva scritto su invito di Rodolfo Mondolfo - un prestigioso esponente del socialismo riformista - un saggio, Il fascismo e la crisi italiana, che non era dispiaciuto a Mussolini - lo avrebbe recensito sul Popolo d'Italia il 18 settembre col titolo «Il fascismo e M. Missiroli» (ora nel vol. XVI dell'Opera Omnia). L'interpretazione di Missiroli che, a suo dire, si muoveva nel solco «di un cauto materialismo storico», si ispirava, come scrive Perfetti, a uno «storicismo di matrice hegeliana temperato, per così dire, dal realismo politico di derivazione paretiana». E in un certo senso applicava alle vicende del dopoguerra lo schema euristico del suo libro più noto, La monarchia socialista (Laterza) del 1914, ripubblicato nel 2015 da Le Lettere, sempre a cura di Perfetti.
In quel testo, il giovane studioso bolognese sosteneva la centralità dell'istituto monarchico nell'Italia unita come ostacolo sulla via della modernizzazione politica. L'unità era stata opera di minoranze eroiche, come gli aveva insegnato Alfredo Oriani da sempre «termine fisso di eterno consiglio», ma le idealità dei suoi artefici e soprattutto il progetto di immettere le masse nello Stato, in mancanza di una sostanza etica di massa - impossibile senza una riforma religiosa che da noi non ci fu - naufragarono miseramente. La monarchia divenne, in tal modo, socialista, nel senso che dirottò nella dimensione economica le istanze di rinnovamento politico che avrebbero potuto trasformare la nostra in una democrazia parlamentare, dando voce e peso a tutti i partiti e gli interessi diffusi nel Paese e facendoli concorrere alla sua riforma morale e intellettuale. Giovanni Giolitti, il più fedele e disinteressato servitore del Re, seppe «governare secondo i modi della civiltà occidentale, un popolo rimasto estraneo alle formazioni spirituali della modernità». Ma la guerra e le divisioni sociali e politiche che ne seguirono, assegnavano un altro compito all'uomo di Stato: «governare l'Italia stimolandola a salire verso la coscienza dello Stato moderno, verso la libertà, contro le sue naturali, istintive tendenze, che la portano a negare il Risorgimento, a ripiegare sul Municipalismo e il clericalismo». Sono citazioni tratte dall'Introduzione a Il colpo di Stato, scritto un po' diverso dai sei capitoletti dell'«opuscolo».
A ben riflettere, Mussolini è stato il vero grande problema di Missiroli, quasi la sua ossessione spirituale. Oppositore intransigente del fascismo nel periodo in cui diresse il democratico Secolo di Milano (1921-1923), giunge a sfidare il duce a duello dopo l'uscita degli articoli del dicembre 1924, «Atto di accusa» (La Stampa) e, soprattutto, «Chiamata di correo» (Il Mondo). Sennonché, prima di diventare un giornalista di regime con la mediazione di Leandro Arpinati, si avverte in lui una significativa oscillazione nel giudizio sul duce: una nuova versione del giolittismo? Una nuova versione del collaborazionismo ovvero del tentativo generoso fatto da Francesco Saverio Nitti di nazionalizzare le masse nella democrazia? Un capobanda al servizio della reazione mascherata di simboli e parole rivoluzionarie? L'Introduzione al Colpo di Stato si conclude con una riflessione che misura tutta la contorsione dialettica dell'autore. «Le opposizioni democratiche realizzeranno quello che era il sogno segreto di Mussolini: una grande democrazia del lavoro, fondata su granitiche basi nazionali. È l'ironia della storia, la perpetua contraddizione della vita. Nella politica si lavora per i propri avversari».
Sono così rilevanti, le tematiche contenute nel Colpo di Stato, da poterlo considerare quasi la summula di una meditazione ventennale sulla storia d'Italia. «Il giolittismo è stato soprattutto paternalismo, negazione dei partiti e della politica, elisione del parlamento». «Lo Stato italiano non può contrapporsi all'idea cattolica, privo com'è di sostanza etica propria perché la Monarchia, in Roma, non rappresenta un'idea universale come il Papato». «I massimi problemi del Risorgimento dormono insoluti». Giolitti e la monarchia favorirono il socialismo «soprattutto perché liquidava la democrazia repubblicana e sottraeva le masse all'influenza della Chiesa».
Leggendo questi come altri saggi di Missiroli si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un mazziniano del 1848 tornato sulla Terra nell'età del positivismo e dell'imperialismo. «Nessuna grande politica fu mai possibile senza il battesimo di qualche idealità, che parlasse al cuore prima che alla mente. Non ci abbandonò mai la persuasione che l'avvenire della patria nostra era in una politica di espansione e di primato mediterraneo, in una politica, cioè, che presuppone la concordia all'interno, una salda solidarietà tra le classi, una leale collaborazione». Missiroli fascista? Antifascista? Voltagabbana? Sì, furono molte le giravolte del grande direttore del Corriere della Sera degli anni 1952-1961 ma, ad essere equanimi, la sua ambiguità per così dire ontologica era l'ambiguità della storia italiana e dello stesso fascismo, per chi lo giudichi mettendo da parte la vulgata anpista.
«Coloro che negano al popolo la capacità di governarsi, possono opprimerlo, ma non hanno il diritto di indicargli le vie della grandezza e della gloria nazionale». Parole di un passato sempre più remoto in cui patriottismo, democrazia, giustizia sociale apparivano (ingenuamente) come valori indiscindibili.
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