Moretti a Cannes con "Tre piani", il mondo in versione condominio

Un film la cui prima parte scoraggia un po’ per rigidità e compostezza, anche recitativa, ma la cui presa emotiva va poi a segno: si diventa di casa in un condominio che ospita, a modo suo, l’umanità intera

Moretti a Cannes con "Tre piani", il mondo in versione condominio

Con il film Tre piani, ieri sera è stata la volta di Moretti a Cannes. L’unico titolo italiano in concorso segna il ritorno del cineasta al Festival in cui proprio vent’anni fa vinse la Palma d’Oro con “La stanza del figlio”.

Stavolta pare di trovarsi di fronte al classico esempio di opera cinematografica da lasciar decantare un po’ per capire se scomparirà dalla mente come neve al sole oppure no, anche perché la prima impressione è incerta proprio come appare essere il film. “Tre piani” non è folgorante, né il frutto del miglior Moretti; ha una prima parte in cui si fatica a entrare e ci sono problemi di gestione del tono, giacchè scattano risatine che non si capisce quanto volute dall'autore. Certo, di Moretti è nota la sottile ironia, ma qui si tratta più di sorrisi straniti, magari a indicare come ogni vita non sia che la variante di un dramma mal recitato in cui forse è giusto che scappi da ridere. Metaforicamente funziona: addirittura in soccorso di un tale significato c’è tutta una prima mezzora in cui gli attori sembrano ingessati in interpretazioni impersonali.

Fin dall’incipit, un lungo fermo immagine sulla facciata dell’edificio (di cui al titolo) ripresa in notturna, si ha il senso dell’attesa: la musica di Franco Piersanti è la sola luce, assieme a quella sopra il portone signorile e si ha tutto il tempo, sospeso appunto in una staticità piena, di domandarsi cosa accadrà. Di lì a poco, in strada, ha luogo un incrocio di destini scandito da un incidente, una morte e una nascita. Giusto non dire di più. A brevissima distanza temporale e spaziale c’è già tutto quanto si possa esperire in un'incarnazione: eventi imponderabili su cui non abbiamo potere e che ci vedono o testimoni o vittime, e dolori da parto (che in senso psicologico accompagnano quasi tutti i nuovi inizi). Su quello stesso tratto di asfalto, verso la fine del film, vedremo poi, in un flash mob di tango, quel che serve nel ballo della vita, ovvero passione, coordinazione ma anche istintuale improvvisazione.

Le vite borghesi di chi abita in questo condominio di Roma sono la rivisitazione di quanto ambientato a Tel Aviv nel romanzo di Eskhol Nevo, ispirazione del primo soggetto non originale della filmografia morettiana. Dopotutto le inquietudini sono patrimonio universale e vale anche per gli altri “protagonisti” del film: l’amore, la solitudine, le illusioni.

Assistiamo a vicende intrecciate tra loro e che cambiano per sempre il quotidiano dello stesso gruppo di persone, vedendone anche gli sviluppi ad un lustro e a due di distanza. Senza entrare nel dettaglio, questi nuclei familiari, invidiabili all’apparenza, sono composti da “gente rotta” come la potrebbe definire una bambina del film che usa tale aggettivo nei confronti di un anziano vicino di casa che si va perdendo in tanti sensi. C’è chi (come il personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio) ha un tarlo dentro che arriva a compromettere l’equilibrio dell’intera costruzione esistenziale di chi lo ospita, chi (col volto di Alba Rohrwacher) è vittima della ruminazione mentale che diventa patologica in certi isolamenti prolungati (vedi alla voce "lockdown"); c’è il giudice (Moretti) che, giudicante anche tra le mura domestiche, ha fallito come padre; c’è la bambina che trasuda maturità avendo a che fare con un genitore assente e uno fragile; infine c’è la cecità amorosa declinata sia nella sua versione infantile sia in quella più caparbia e genitoriale.

Sarà vero, come sottolineato da Margherita Buy nel film, che esiste un mondo fuori da quel condominio, ma è altrettanto insindacabile che i tre piani di quello stabile siano una rappresentazione dell'intera umanità. Microcosmo e macrocosmo del resto si specchiano da sempre l'uno nell'altro.

L’impatto emotivo del film di Moretti arriva verso il finale che, anche se non sorprendente, ha una sua magia o l'occhio non si farebbe lucido. Di fronte a questa narrazione così come di fronte allo spettacolo dell'esistenza, quando credi di aver la certezza che certe cose non cambino, è proprio allora che l’attesa può essere premiata.

“Tre piani” racconta come in ogni casa e ad ogni età, malgrado vantaggi apparenti, alberghino segreti, sofferenza e problemi. La chiosa del film, luminosa, è una breve fioritura a cielo aperto, non importa quanto tardiva.

Perché siamo semi la cui sofferenza invisibile non è sterile bensì atta a dischiudere il cambiamento, la nascita di un sé finalmente spoglio di condizionamenti esterni.

Dietro un primo sguardo di facciata, il nuovo film di Moretti si rivela davvero a più piani di lettura, tutti da scoprire un gradino alla volta.

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