La più potente macchina da successo della musica da ballo mondiale si chiama Giorgio Moroder, ha 73 anni e proviene da Ortisei. A stabilire il momento-Moroder in corso è stato l'ultimo disco dei Daft Punk. Attesissimo, vendutissimo, controverso, Random Access Memories contiene il brano Giorgio by Moroder, nel quale il produttore altoatesino (nato HansJorg) racconta la sua storia, che di fatto è anche la storia dell'invenzione della musica dance.
Dopo 40 anni di successi, milioni di dischi venduti, personaggi come Donna Summer creati, tre oscar vinti (migliore colonna sonora nel 1979 per Fuga di Mezzanotte, migliore canzone nel 1984 con Flashdance, e nel 1987 per Top Gun), un grammy, Moroder si diverte a fare da Dj in alcuni eventi di prestigio, a disseminare la sua pagina di SounCloud di inediti e rarità, a ristampare con successo il proprio catalogo, contenente perle come Son Of My Father, capolavoro glam rock del 1972, fuori dai radar della critica italiana (e osannato all'estero). E a pubblicare in sordina Racer, pochi giorni fa, un nuovo brano studiato come colonna sonora di un videogioco d'avanguardia targato Google.
A inizio anni '70, Moroder era solo un immigrato italiano, con tanto di baffoni neri stile Alfasud. Dopo il diploma da geometra aveva girato l'Europa come chitarrista, stabilitosi a Monaco era entrato nel giro discografico, producendo e realizzando dischi commerciali tra pop e discomusic, con punte di kitsch volontario: un titolo per tutti, il brano Reesy Beesy, risi e bisi. Negli anni di apprendistato il musicista aveva capito i segreti della trasposizione del funk e soul americano in chiave europea, cioè l'essenza della dance. Punto primo, il ritmo. «Il pop e il rock hanno due tempi, veloce e lento - dirà in un'intervista - la dance ne ha uno solo», un ritmo medioveloce sui 120 battiti al minuto, con la cassa della batteria che marca tutti i quarti della battuta, il famoso «four on the floor». Punto secondo: il sesso. Nel 1974 Moroder aveva incontrato LaDonna Adrian Gaines, cantante soul convertita con riluttanza alla dance e ribattezzata Donna Summer. Nel 1975 avevano registrato il brano Love to love you, mettendoci qualche sospiro erotico in stile Gainsbourg-Birkin. Il boss dell'etichetta Casablanca, Neil Bogart fece ascoltare il nastro ad un party, richiese subito una versione estesa. Il risultato furono 17 minuti di remix: Moroder fece sdraiare Donna Summer nella sala di ripresa in modo che non la vedessero dalla regia, lei a luci spente simulò diligentemente 16 orgasmi, secondo il conto di una rivista specializzata. Successo mondiale.
L'ultimo ingrediente della dance è l'elettronica. Dopo aver ascoltato il primo sintetizzatore Moroder capì che era proprio quello il tocco di futuro che mancava all'utopia danzereccia. Dopo le prime prove il risultato fu quel capolavoro elettro-erotico di I feel love (1976) che stabilì i canoni dance: melodia, tappeti radianti di sintetizzatori, incastri (molto più raffinati di quanto sembra a un primo ascolto) di sequenze programmate: uno stile che funziona ancora in tutto il mondo, fino a Lady Gaga.
Un metodo di lavoro quello di Moroder, che aveva a che fare con la produzione, non con l'arte. Più tardi ricorderà che i successi di Donna Summer erano stati registrati in qualche ora ciascuno. Sull'argomento il produttore ha le idee chiare: «La disco non è arte o roba seria, è fatta per ballare, e so che la gente vorrà ballare sempre» ha detto. Del resto, nelle interviste, una costante di Moroder è di apparire quasi inafferrabile a forza di confessioni («nei testi delle canzoni non sento di aver niente di importante da dire»), di disimpegno («sarebbe stupido raccontare i problemi del mondo a persone che stanno ballando») o di understatement («non sono così complicato o intelligente come compositore, e non sono interessato a diventarlo»). In un mondo di popstar che dissimulano il loro scopo «strutturale» -vendere dischi- con dichiarazioni di pathos social-pauperista basterebbe questo per fare di Moroder una rara avis di allegria e sincerità. Ma è davvero tutto qui? Non sembrerebbe. Perché in alcune interviste l'italiano dalle uova d'oro ha attaccato, per esempio i Kraftwerk definendo le loro melodie «troppo facili». E in effetti, ascoltando con attenzione la sua discografia, e in particolare dischi come E=Mc2 (1979) più altri lavori sparsi, emerge una capacità orchestrale solo dissimulata dall'impatto euforico e suggestivo dei sinth.
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