La morte di James Levine, il direttore d'orchestra americano che fu direttore musicale della Metropolitan Opera di New York dal 1976 al 2018, licenziato a seguito di pesanti accuse di molestie sessuali, chiude simbolicamente un'era. La sua figura rimane molto compromessa, anche dopo che l'interessato e il Met raggiunsero un accordo non reso pubblico. Dibattere sul «si diceva, si sapeva», è poco corretto, ma per decenni il suo potere sembrava assoluto e al di sopra di tutto, fino alle circostanziate accuse dei musicisti che non erano né attricette in cerca di pubblicità né incapaci favoriti carrieristicamente.
Non si può dimenticare che in questi mesi di pandemia, la Metropolitan Opera ha chiuso totalmente, mettendo i dipendenti in una situazione drammatica: è la dura legge del Grande Paese, straordinario nel disporre di somme faraoniche elargite dai Paperoni a stelle e strisce, come inesorabile davanti a tremiti di crisi o bilanci in rosso. Difficoltà che si erano già evidenziate ante-Covid.
È un ulteriore ironia della sorte che proprio quando il Met aveva trovato nel giovane canadese Yannick Nézet-Séguin la nuova guida galvanizzante, molti musicisti dell'orchestra che Levine aveva portato a un livello tecnico eccelso (insieme al Coro istruito da Don Palumbo) prima raggiunto a sprazzi - per intenderci quando salivano sul podio del Met alcune bacchette particolarmente carismatiche - si siano dovuti trasferire a vivere altrove o abbiano dovuto vendere beni per l'impossibilità di sostenere mutui e affitti inesorabili.
La storia fra il Met e Levine sembrava infinita, stante la sua capacità garantire un livello molto alto al repertorio italiano, tedesco e francese (si pensi alla grande ripresa del colosso di Berlioz, Les Troyens, con Placido Domingo, Tatiana Troyanos e Jessye Norman), evitando alla direzione del teatro, come nell'era di Rudolf Bing, di ricorrere a svariati direttori di importazione europea per coprire i repertori nazionali. Così Levine, rimasto senza rivali americani (Thomas Schippers morto prematuramente e Leonard Bernstein dedito al sinfonico) ha diretto al Met tutto il Verdi maggiore e Puccini, Mozart e Wagner, allestiti in produzioni sfarzose, spesso con la regia di Franco Zeffirelli o dell'abile Direttore della Produzione, John Dexter. Spettacoli che portavano al Direttore Generale Joseph Volpe assegni cospicui che oggi paiono appartenere a una sepolta epoca d'oro. Nel suo regno quarantennale Levine ha disposto delle voci migliori e meglio pagate in circolazione: su tutti il super tenore Luciano Pavarotti e il camaleonte Domingo, accanto a Leontyne Price e Renata Tebaldi nel loro autunno, all'astro di Renata Scotto che passava con la classe del suo belcanto al repertorio verista: Bohème, Manon Lescaut (regista Gian Carlo Menotti), Francesca da Rimini (regista Piero Faggioni), Andrea Chénier. Senza dimenticare la valorizzazione di voci americane: Kathleen Battle, Aprile Millo, Florence Quivar, Cheryl Studer, Samuel Ramey.
Levine aveva studi da fuoriclasse: suonava splendidamente il pianoforte, appreso da Rudolf Serkin e Rosa Levinne, e si era perfezionato in direzione d'orchestra come assistente del tiranno di Cleveland, George Szell.
Sapeva preparare uno spettacolo d'opera in tutte le sue componenti, cosa sempre più rara fra le bacchette che passano più tempo in aereo che a provare in teatro. Ai posteri lasciamo le sentenze: a miglior memoria rimangono decine di video-opere e incisioni. Saranno sufficienti ad alleggerire il cuore del defunto davanti al Dio Toth?
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