Nelle rare fotografie appare preoccupato, serio, sotto il lume della severità; di solito Piergiorgio Bellocchio veniva inscatolato nella didascalia «fratello del regista Marco». Nel film Marx può aspettare (2021), Marco Bellocchio, il regista, rievoca la storia del fratello Camillo, suicida nel dicembre del '68, a 29 anni; Piergiorgio, nato a Piacenza il 15 dicembre del 1931, era il più grande.
Nelle note pubblicate qua e là, rinvenibili in rete, di Piergiorgio Bellocchio si dice di tutto, tranne l'importante. Si ricorda che è stato il primo direttore responsabile di Lotta continua, nel '69: un incarico «di servizio», sostenuto senza partecipare ai lavori del giornale, che gli garantì tre mesi di carcere. Si legge che ha diretto per tre anni - dal 1977 al 1980 - la casa editrice Gulliver; che fu implicato nel «caso» che inchiodava Daniele Luttazzi, reo, dopo la pubblicazione di Va' dove ti porta il clito, di aver plagiato, con aggravante di satira, Va' dove ti porta il cuore della Tamaro. La Tamaro - con la quale si schierò Bellocchio - perse la causa; per Luttazzi tifavano, tra gli altri, Maria Corti, Omar Calabrese, Alberto Bertoni; qualcuno scrisse, senza errori, che il «tormentone» era francamente ridicolo. Così, di Piergiorgio Bellocchio si ricordano i libri minori - le «note di lettura» pubblicate nel 2020 da Quodlibet come Un seme di umanità, ad esempio - perché quelli maggiori sono ostinatamente dimenticati da un sistema editoriale che uccide i propri padri per omaggiarli quando sono nella tomba: la raccolta di racconti I piacevoli servi, stampata da Mondadori nel 1966, le raccolte di articoli distribuite in Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), Eventualmente (Rizzoli, 1993), L'astuzia delle passioni (Rizzoli, 1995). «Non amo scrivere libri, non ne sono capace», diceva lui; aveva l'arguzia di un minatore del verbo, tetragono come un moralista mentre intorno sibila la ghigliottina.
A volte le cifre hanno più compassione degli uomini. Citato, spesso, per aver fondato Diario, insieme ad Alfonso Berardinelli, Piergiorgio Bellocchio è stato, soprattutto, l'ideatore di Quaderni piacentini: il primo numero uscì nel marzo del 1962, sessant'anni fa. Il periodico, realizzato «a cura dei giovani della sinistra», si proponeva con «il carattere di prova», si presentava come «un foglio di battaglia, portata non solo all'esterno ma anche all'interno», con formula giornalistica rotonda: «Si può e si deve esser seri senza esser noiosi. Con allegria». La testata - scabra, cruda, con rigore da samizdat - ricalca il viso di Pierluigi Bellocchio, ne è la fotocopia, l'anima, qualora vi si creda. Del primo numero di Quaderni piacentini - reperto più arcaico delle pitture di Lascaux - va letta la sulfurea rubrica «Da leggere. Da non leggere»: si consigliava L'uomo senza qualità di Musil, Casa Howard di Forster, La mia vita di Trockij, battezzando come inutili i saggi di Moravia e di Pasolini sull'India, La vacanza di Dacia Maraini e «tutta l'opera» di Jack Kerouac. Già da qui si rivela l'indole, indocile, di Bellocchio & Co.
Dal secondo numero - 1 bis, aprile 1962 - è Piergiorgio Bellocchio a orientare il genio critico: la segnalazione su Borges, «esempio di cosmopolitismo letterario dei più arditi e perfetti», è centrata («I suoi racconti barocchi accentuano spesso la precarietà della sorte dell'uomo ma ne illuminano anche tutta una serie di nuovi significati che dipende solo da noi tradurre in proposte di vita. Se ne costernino i pavidi, i pigri»); quella su Pier Paolo Pasolini è esatta, scritta oggi, soprattutto per la denuncia, limpida, senza livore, della palude culturale italica: «Va riconosciuto il merito a Pasolini di essere un personaggio: tutti i suoi libri sono sempre stati dei fatti, delle novità, nello squallido panorama della nostra letteratura fatta soprattutto di rimasticature, di promesse mancate, di abili e pigri rentier, di provincialismo... Pasolini, infine, non può che ripetersi. Per questo, nonostante l'autenticità del suo mondo e il suo grandissimo talento poetico... finisce col logorare rapidamente il mezzo espressivo impiegato».
Alla sua rivista - di cultura, dunque, in seguito, di culto - collaborarono, tra i tanti, Giancarlo Majorino, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni, Goffredo Fofi, Franco Rella, Costanzo Preve. In un saggio A proposito di «Barry Lyndon», uscito nell'aprile del 1977, Bellocchio attaccava Novecento di Bertolucci, «un film irrilevante non tanto perché faccia il gioco del PCI, ma in primo luogo perché è banale e noioso, non dà emozioni, non stimola nessuna facoltà critica». Vi si respirava una stregata libertà.
A chi scrive nel latte degli ingenui, scevro dai diktat della Storia, pare che Piergiorgio Bellocchio sia l'emblema di un tempo in cui contavano le idee prima delle ideologie.
Poi, certo, c'è chi dice «militanza», parola stentorea, stinta dall'abuso; diciamo che chi non è per le passioni tristi e per il quieto vivere, per il grigiore del conformismo, per la cultura da salotto o da riunione di partito, altro dagli intellettuali con la sottana che velano di prepotenza la propria debolezza, è degno di essere santo subito.
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