"Nei miti della creazione ritroviamo il senso della nostra esistenza"

Lo studioso lega astronomia, archeologia e antropologia: "Voglio capire le altre civiltà"

Anthony Aveni dice di essere «in parte astronomo, in parte antropologo», uno studioso «interessato alle altre civiltà». Origini «italiane al cento per cento», casertano/abruzzesi dal lato materno e siciliane da quello paterno («ma non parlo italiano perché ai tempi di mia nonna, se eri immigrato dovevi parlare inglese, dovevi essere americano»), Aveni è nato a New Haven, in Connecticut, nel 1938 e, per oltre mezzo secolo, è stato professore alla Colgate University di Hamilton (New York), dove è ancora emerito di Astronomia, Antropologia e Studi dei popoli indigeni d'America. È dal salotto di casa sua che risponde, con la passione che anima i suoi libri (ne ha pubblicati trentacinque) e che lo ha spinto a fondare due discipline come l'archeoastronomia e l'astronomia culturale, delle quali un esempio perfetto è il suo nuovo saggio, I racconti della creazione. I miti della genesi fra paesaggio naturale e immaginazione umana (ilSaggiatore, pagg. 288, euro 24), che è il seguito (cosmologicamente parlando) del precedente Stelle. Il grande racconto delle costellazioni. Dalla Genesi al cinese Pan Gu, dalle isole che emergono dalle acque alle uova primordiali, un trionfo della fantasia umana, talmente potente da arrivare a concepire, con secoli di anticipo, idee, come quelle di Diodoro Siculo, che ricordano il Big Bang e perfino l'evoluzione... Storie in cui si delinea un senso, in cui non ci sono soltanto formule bensì nelle quali, scrive Aveni, «in gioco c'era la battaglia fra destino e libero arbitrio, fra corpo e anima».

Professor Aveni, come è nato questo suo approccio?

«Da astronomo studiavo le galassie e le stelle, e come si formano; a un certo punto mi sono imbattuto nelle rovine Maya e nei documenti dell'epoca, che mostravano con quanta precisione i Maya riuscissero a seguire e prevedere i movimenti di Venere, e mi sono chiesto: come hanno fatto? E così mi sono messo a studiare l'astronomia di altre culture, una astronomia senza l'uso di telescopi, computer e tecnologia».

Come la nostra.

«Se si pensa a quanto la cultura occidentale moderna sia dipendente dalla tecnologia... A me interessa capire le altre persone, così leggo le storie, come quelle della creazione, in cui gli altri raccontano da dove vengono, come siamo arrivati fino a qui, come mai tutto sia connesso: insomma, le grandi domande, il quadro per intero. E perciò ho lavorato con archeologi, antropologi, studiosi delle religioni, ed è stato un percorso lungo e meraviglioso in cui, ancora oggi, continuo a imparare, cercando di incorporare i metodi di queste discipline nella mia».

Perché è importante studiare questi miti oggi?

«Perché oggi non capiamo gli altri e chiunque abbia una convinzione diversa dalle nostre. Questi racconti ci aiutano a comprendere come gli altri colleghino le cose, quali siano le storie che hanno un significato per loro, per la loro vita, la società, la politica. Di solito, se si pensa a una storia della creazione, si pensa alla Genesi o al Big Bang».

E invece?

«E le altre? Il problema del Big Bang è che, come ha detto il Nobel Steven Weinberg, più l'universo appare comprensibile, più sembra inutile, più fatichiamo a comprendere il nostro posto in esso. Invece queste storie hanno un significato, nel contesto della loro cultura».

Che rapporto c'è fra mito e scienza?

«Per molti, il mito è solo qualcosa di inventato, ma io non lo considero tale, bensì come una storia che ha senso per le persone che la raccontano; e il mio compito è mostrare in che modo abbia senso. Il contesto, per me, è il paesaggio».

C'è un legame fra immaginazione e paesaggio?

«Sì, è questo il segreto... Il nostro modo di descrivere il paesaggio è il modo in cui pensiamo; e, nelle storie di creazione, questo modo include le persone: esse non sono separate dal paesaggio, sono parte di esso».

Noi creiamo i miti e i miti, a loro volta, danno forma alla nostra vita?

«I miti ci offrono un significato, mentre noi scienziati non vogliamo mai parlare di significato... Queste storie spiegano quello che succede nella nostra vita, e perché c'è un dio».

Ci sono storie di uova primordiali, in cui gli elementi si mescolano e poi si separano, che ricordano il Big Bang.

«La mia preferita è quella cinese di Pan Gu, il dio della creazione, che ha cesellato tutto il mondo con un martello, impiegando diciottomila giorni. È uscito da un uovo, il cui guscio diventano le montagne, proprio come un uccellino, che lotta per venire alla vita, e picchietta il suo stesso guscio. Pan Gu ha dovuto lottare per creare il mondo, come lottano l'uccellino, o la madre al momento di partorire».

E poi che cosa succede?

«Il guscio e il suo corpo diventano il mondo, un occhio è il Sole, l'altro la Luna, il sangue diventa l'acqua e, alla fine, dopo una grande battaglia tra le varie forze della natura, arriva la pace, ma alcune cose nel paesaggio rimangono un po' storte: e questo spiega, dice il mito, perché in Cina i fiumi scorrano verso Sud-Est, e le montagne siano tutte a Ovest. E questo è ciò che un bambino ricorda».

Nei miti ci sono fango, montagne, ghiaccio, isole, caverne: i suoi elementi preferiti?

«Amo i miti di isole, in particolare la storia che riguarda Maui che, col suo amo magico, pescò a una a una dall'acqua le isole delle Hawaii. Fino a che il fratello, impaziente, si girò a guardarlo, interrompendo la magia e impedendo che si formasse un continente intero: perciò le isole sono rimaste sparse».

È stato eletto «miglior professore d'America» ed è finito su Rolling Stone come uno dei dieci prof migliori del Paese.

«È una cosa sciocca, come fa a essercene uno solo? Ma mia madre è stata felicissima... Noi amiamo molto i cerimoniali. E guardi che sulla copertina di Rolling Stone c'era Jodie Foster. Comunque ho insegnato per 54 anni, sono in pensione da due, e ho avuto una carriera meravigliosa, in cui ho potuto esplorare tutto quello che ho voluto: la mia fortuna è stata entrare negli anni '60-'70, un periodo di cambiamenti, nel quale io ho portato il mio, questo insegnamento interdisciplinare. Anche se certi colleghi mi guardavano storto e mi dicevano: hai un dottorato, non farlo».

Quello che colpisce, nei suoi libri, è come tutto sia connesso: fra i racconti stessi, seppure lontani, e fra i miti e le conoscenze di oggi.

«Quella è la

convinzione, profonda, da cui parto: queste cose sono tutte connesse, ma dobbiamo esprimere in che modo lo siano; ed è per questo che ho scritto Stelle e I racconti della creazione. Ho impiegato tre anni, ma ne sono felice».

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