Nessuno le ricorda ma ci furono anche partigiane liberali

Colte e raffinate, nei loro "salotti" già prima dell'8 settembre si concepirono trame, si incontrarono persone, si cominciarono a tessere reti anche con le forze alleate e gli antifascisti all'estero

Archivio privato Edgardo Sogno
Archivio privato Edgardo Sogno

È curioso che la storiografia degli ultimi tempi, più o meno (e a ragione) «revisionistica», abbia taciuto il contributo dato delle donne liberali alla lotta di liberazione dal nazifascismo. Colma però la lacuna Rossella Pace nel suo studio "Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile" (Rubbettino). Che la vecchia storiografia e retorica resistenziali avessero ignorato il ruolo niente affatto irrilevante delle donne liberali è perfettamente comprensibile all'interno di quella vera e propria «conventio ad excludendum che c'è stata nei confronti del contributo dato da alcuni partiti ciellinisti». In particolare, quelli che mettevano in crisi la retorica acriticamente di ispirazione progressista.

D'altronde, già nel pieno della Resistenza, come ci fa toccare con mano l'autrice, le stesse partigiane consideravano quelle di loro liberali come «le altre», cioè lontane non solo per appartenenza politica ma anche sociale. Le partigiane liberali erano infatti per lo più provenienti da famiglie aristocratico-borghesi, di sentimenti non fascisti quanto non proprio antifascisti, liberali nel vecchio senso patriottico e nazionalista dell'élite italiana prefascista. Erano colte e raffinate e avevano maturato precedentemente quelle capacità organizzative che ora mettevano a disposizione della comune lotta partigiana. Anzi fu proprio nei loro «salotti» che, già prima dell'8 settembre, si concepirono trame, si incontrarono persone, si cominciarono a tessere reti anche con le forze alleate e gli antifascisti all'estero. Quei «salotti» ebbero anche il compito di dare nuove leve alla cospirazione. «Il venire a contatto con personaggi coinvolti a vario titolo nella opposizione al regime, la vicinanza a questo mondo e alla causa della principessa Maria Josè, scatenarono mille curiosità, facendo crescere, a poco a poco, l'avversione alla dittatura, maturata dalla precedente generazione, durante la lunga Resistenza' di quanti per ventitre anni non risposero agli allettamenti del regime».

Pur avendo respirato un'aria da «snobismo liberale», per dirla con fortunata espressione di Elena Croce, quelle donne non esitarono a sporcarsi le mani e a scendere in campo anche in modo operativo concreto, come è particolarmente evidente nelle vicende, qui ben raccontate, dell'organizzazione in cui ebbero forse più peso: quella «Franchi» di Edgardo Sogno che non a caso aveva stretti rapporti operativi coi veri «liberatori», cioè gli Alleati. Dopo la guerra, con la loro riservatezza borghese di altri tempi, le partigiane liberali ritornarono alle precedenti attività senza pretendere nessun riconoscimento morale dalla società. L'autoesclusione, come la chiama Pace, converse con l'interesse dei «rossi» a dimenticarsene e anche con lo scarso interesse degli stessi liberali a conservarne la memoria. È come se la rivoluzione avesse divorato le proprie figlie, osserva con amarezza l'autrice.

Ricordare questa pagina di storia, serve non solo a rendere sempre più articolata e meno monca la nostra memoria, ma anche a confermare la scarsa fortuna e il pregiudizio che il liberalismo ha avuto (e tuttora ha) in Italia.

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