L'era di Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano che ha legato il suo nome al New Deal e alla Seconda guerra mondiale, ebbe inizio il 4 marzo 1933 con la cerimonia di insediamento a Washington e si concluse con la sua morte improvvisa per emorragia cerebrale a Warm Spring, in Georgia, il 12 aprile 1945, tre settimane prima della fine della guerra in Europa. Quella di Roosevelt fu una presidenza anomala, la più lunga della storia degli Stati Uniti - fu l'unico a essere eletto quattro volte - ma anche la più controversa. I suoi apologeti - primi fra tutti Arthur Schlesinger che gli dedicò una monumentale biografia e Gore Vidal che ne fece, insieme alla moglie Eleanor, il protagonista di un affresco romanzesco dedicato alla golden age, l'età dell'oro della politica americana - lo hanno trasformato in un «mito», simbolo di rottura con il passato e pioniere di un sistema politico democratico e progressista in grado di accettare (e vincere) le sfide del futuro.
Eletto, sconfiggendo il repubblicano Herbert Hoover, presidente degli Stati Uniti, questo cinquantenne rampollo di una agiata e antica famiglia, di carattere espansivo e cordiale, aveva conquistato molte simpatie in un Paese sofferente per gli effetti della Grande Depressione iniziata con il crollo della Borsa nel 1929. Il suo successo era stato travolgente da quando, alla convention del partito democratico, aveva lanciato lo slogan: «Vi impegno e mi impegno a un nuovo corso per il popolo americano». Un messaggio ottimistico e pragmatico che metteva in luce la sua estraneità alle ideologie politiche. In effetti Roosevelt era un liberale progressista entrato in politica influenzato dalle idee wilsoniane, ma senza che tale influenza si fosse tradotta in una filosofia politica.
Ha scritto John T. Flynn in un volume affascinante e celebre, Il mito di Roosevelt (recentemente riproposto da Oaks Editrice, pagg. XVI-640, euro 25), che egli «aveva votato per i candidati democratici senza una precisa opinione al riguardo, e si era iscritto al partito democratico con la stessa naturalezza con cui era entrato nella chiesa episcopale». E ha proseguito in questi termini: «se non era un estremista, è del pari esatto affermare che non era un conservatore. In realtà, non era che un uomo privo di qualsivoglia filosofia fondamentale, e le posizioni che assunse nelle varie questioni economiche e politiche non furono determinate da un credo intimamente radicato nel suo spirito ma piuttosto dalla necessità della situazione politica contingente». In effetti, a chi gli chiese se egli fosse comunista o capitalista o socialista e, in definitiva, a quale filosofia si rifacesse, Roosevelt, con aria imbarazzata, rispose: «Filosofia? Sono un cristiano e un democratico, ecco tutto».
Secondo Flynn, Roosevelt era, in sostanza, un opportunista privo di ideologie ma di fatto le sue scelte economiche di tipo keynesiano, passate alla storia come New Deal, erano esempi di pianificazione destinata a convogliare sotto le ali governative tutta la vita industriale e agricola della nazione. Si trattava di una linea politico-economica che era «la negazione totale del liberalismo e, viceversa, la quintessenza del fascismo». E ciò anche se egli, aggiunge Flynn, «non sapeva di indulgere ad un esperimento fascista, perché non sapeva che cosa fosse il fascismo». Roosevelt, in fondo, si limitava ad adottare provvedimenti che gli sembravano politicamente vantaggiosi perché «graditi ad una enorme massa di contadini e di industriali» ma non si preoccupava di studiare «i principi fondamentali cui le sue misure si rifacevano perché la sua mente non era assuefatta a speculazioni del genere». In realtà, si trattava di provvedimenti che allontanavano sempre di più il sistema economico e politico americano dalla sua tradizionale matrice liberale.
Il volume di Flynn (1882-1964), pubblicato negli Stati Uniti nel 1948, è il più importante studio revisionista americano su Roosevelt e sulla sua politica ed è all'origine della letteratura anti-rooseveltiana che presenta il presidente del New Deal come un, sia pure involontario, filo-comunista o cripto-comunista, a cominciare da un famoso saggio di George N. Crocker dal significativo titolo Roosevelt's Road to Russia, apparso alla fine degli anni '50. Flynn è stato uno degli esponenti più significativi della Old Right americana che si caratterizzava per posizioni antistataliste e libertarie: uno dei suoi esponenti più celebri, Albert J. Nock, aveva scritto un libro dal titolo Our Enemy, The State (1935) e aveva criticato il New Deal quale espressione di un governo personale esercitato, certo, non come in Italia o in Russia o in Germania, ma sempre frutto di una concentrazione del potere lontana dalla tradizione dei Padri Fondatori.
Come i suoi amici della Old Right, Flynn era un anticomunista viscerale che vedeva nello statalismo del New Deal una filosofia politica antitetica ai valori originari del liberalismo americano: condannava, in quest'ottica, i cedimenti dei «liberali-totalitari» (così chiamava i sostenitori del New Deal) di fronte alle pulsioni stataliste e totalitarie implicite in quella visione. Sotto un certo profilo la critica al New Deal sviluppata da Flynn e dalla Old Right riprendeva temi e motivi della polemica contro il socialismo, il comunismo e il fascismo portata avanti da economisti e sociologi della cosiddetta «scuola austriaca», primi fra tutti Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Proprio quest'ultimo, alla fine della guerra, aveva pubblicato un saggio, The Road to Serfdom (La via della schiavitù), che aveva avuto un successo mondiale e aveva denunciato la deriva totalitaria di scelte politico-economiche interventiste, socialiste e stataliste.
Il libro di Flynn su Il mito di Roosevelt - un bel libro, va precisato, di grande leggibilità, oltre che rigoroso dal punto di vista delle argomentazioni - non salva nulla dell'eredità dei tanti anni di presidenza di Roosevelt. È una requisitoria impietosa che ha fatto sì che quest'opera, pur importantissima, sia stata messa da parte dalla storiografia «ufficiale» sull'età rooseveltiana, troppo condizionata dal pregiudizio apologetico sul presidente americano.
Secondo Flynn il bilancio della presidenza di Roosevelt era stato disastroso: aveva rappresentato una rottura traumatica con la tradizione liberale, aveva rotto l'equilibrio costituzionale di pesi e contrappesi proprio della separazione dei poteri, aveva ridotto il Congresso a luogo di ratifica delle decisioni dell'esecutivo. Inoltre, non aveva affatto salvato - come sostiene invece la vulgata filo-rooseveltiana - il sistema economico perché l'interventismo statale aveva colpito la libera iniziativa. In conclusione, «l'ibrida alterazione del sistema politico» e «la distruzione del sistema economico» avevano spinto gli Stati Uniti ad abbracciare l'idea di «uno Stato ad economia pianificata che, sotto forma di comunismo o di fascismo» continuava a dominare il continente europeo anche dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L'influenza del von Hayek di The Road to Serfdom è evidente laddove Flynn, dopo aver riconosciuto che «il fascismo» era «scomparso dalla Germania», precisava che l'Inghilterra viveva «sotto un ibrido regime di socialismo e di capitalismo che viene chiamato social-democrazia, mentre in sostanza non si tratta che di una deformazione del fascismo, basato come è su un sistema di controlli statali, senza i quali non potrebbe esistere».
Il volume di Flynn - le cui tesi l'autore avrebbe ribadito in lavori successivi, a cominciare dal saggio del 1955 intitolato The Decline of the American Republic - è un classico, probabilmente il più radicale e significativo, di quella vasta letteratura anti-rooseveltiana fiorita negli ambienti del pensiero conservatore
e libertario statunitense che ha come punto fermo la condanna dell'interventismo statale in economia e, naturalmente, in politica. Può piacere o non piacere, con i suoi giudizi urticanti, ma certo non lo si può ignorare.
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