da Venezia
La nouvelle vague italiana, come l'ha definita il direttore della Mostra del cinema Alberto Barbera a proposito della folta pattuglia dei film nazionali salvo poi un po' smentirsi («Forse ho esagerato»), ha un vincitore anzi, cosa ancora più rara, una vincitrice: Susanna Nicchiarelli, la regista di Nico, 1988 sugli ultimi anni della vita della famosa cantante che ha collaborato con i Velvet Underground ma che nel film è «solo» Christa Päffgen. È questo il miglior film - segnatevi l'uscita in sala il 12 ottobre - per la giuria presieduta da Gianni Amelio della sezione «Orizzonti», per capirci il secondo concorso del festival, più attento alle opere «sperimentali». Ma la quarantaduenne regista dai capelli rossi è contentissima anche così perché, dice, all'indomani della premiazione quando sul palco ha ringraziato il marito «perché mi ha sposato» e la sua bambina «che mi vede da casa e vorrei che fosse orgogliosa di me», «sono stata in una sezione molto bella che segnala le nuove frontiere del linguaggio cinematografico».
Quale emozione ha provato sul palco?
«Incredibile, grandissima, perché sapevo che il film aveva ottenuto un premio ma non mi avevano detto quale».
Anche con Cosmonauta, il suo esordio, era stata premiata qui a Venezia nel 2009. I premi sono importanti?
«Danno tantissima forza ma è fondamentale anche la sola la partecipazione al Festival perché i selezionatori sono molto più crudeli del pubblico. Alla fine hai una strana forma di sollievo, la competizione nei Festival ha un aspetto un po' sportivo che per me è sempre angosciante. Non mi piace sperare che gli altri vadano male per andare bene».
Nico, 1988 è stato forse il film italiano più apprezzato dalla critica insieme a quello dei fratelli Manetti nel concorso principale. Un miracolo?
«Una copertura così unanime e positiva naturalmente mi ha fatto felice. Ora spero che il pubblico lo veda al cinema perché alla fine i film sono per loro».
Può aver influito il fatto che finalmente un film italiano, girato in inglese, racconta una storia fuori dai nostri confini?
«Non mi sono imposta di fare un film internazionale. Perché è una storia molto mia, partita da me, da una mia passione. Quella per una donna tedesca che appartiene alla generazione dei miei genitori con ricordi di infanzia tremendi, come quelli di mia mamma ossessionata dai bombardamenti».
Come ha incontrato il personaggio di Nico?
«Come tutti, con il disco dei Velvet Underground. Poi mi sono chiesta che fine avesse fatto e ho ascoltato il suo disco Desertshore scoprendo un'artista straordinaria che non è rimasta attaccata all'idea della bella ragazza venticinquenne. Si è spogliata della bellezza non duratura e ha trovato la sua identità».
Cos'altro l'ha sorpresa?
«La drammaticità della sua storia. All'inizio del film la sentite cantare: Non mi venite a rimproverare i miei fallimenti, li conosco bene».
L'attrice protagonista Trine Dyrholm è magistrale.
«Scegliendo lei abbiamo abbandonato l'idea della somiglianza. L'abbiamo reinventata con un'attrice che sapesse cantare con la giusta energia. Alla fine la guardavo sul monitor e mi sembrava proprio Nico».
Tutti i suoi film, anche La scoperta dell'alba tratto dal romanzo di Veltroni, sono ambientati nel passato, come mai?
«Mi sembra che così i film invecchino meno. Senza però idealizzare il passato come fa spesso chi, penso alla generazione degli anni '60, non vuole vivere il presente. Per questo, quando chiedono a Nico quanto erano belli quegli anni lei risponde caustica: Sì certo, prendevamo un sacco di Lsd».
In un'intervista a una regista donna c'è sempre la domanda su come ci si sente a essere un panda.
«Attenzione! Non siamo poche, siamo tantissime e tutte bravissime. E conquisteremo il mondo!».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.