Nope, l’attesissima terza opera del regista Jordan Peele, è al cinema. Dopo il successo di “Get Out” e “Us”, titoli che hanno consacrato il cineasta a innovatore del genere horror, le aspettative erano evidentemente altissime. Le numerose chiavi di lettura dei precedenti film sono presenti anche qui, ma “Nope” è profondamente diverso e si farà ricordare per l’originalità con cui propone un tema a dir poco saturo: quello degli avvistamenti alieni.
La trama vede due fratelli, James e Jill Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer), ereditare il ranch dal padre deceduto a seguito di una misteriosa caduta di detriti dal cielo. Siamo in un paesino isolato della California, Agua Dulce, ed è qui che la famiglia Haywood si occupa da generazioni di allevare cavalli da usare in film o spot pubblicitari. La crisi nel settore si fa sentire e quindi i due si trovano a cedere alcuni esemplari al vicino, proprietario di un parco a tema per famiglie. Quando nel cielo inizieranno a manifestarsi strane presenze, i due fratelli decideranno di immortalarle per sfondare in tv. Ad aiutarli nell’impresa, il commesso di una catena di elettronica e un regista vecchia scuola.
Nope è una parola gergale che sta per “no” e indica l’esclamazione più comune quando si avvista qualcosa di inquietante. Non stupisce quindi che l’incipit renda onore al titolo con un flashback temporale che racconta di un inaspettato massacro compiuto su di un set televisivo da una scimmia. Onestamente questo episodio del passato è inglobato nella trama in maniera un po’ forzata ma la sua presenza è in linea con quanto il film sostiene a più riprese: la natura ha in sé una ferinità ingestibile perché non addomesticabile. Il dominio dell’uomo su certe incognite biologiche resta utopico e perfino arrogante. Nella narrazione ci sono infatti cavalli che sul set tirano calci quando innervositi e c’è soprattutto un predatore sui generis che non va guardato negli occhi.
Ci vuole disciplina e rispetto nel rapportarsi con il non umano e, in questo senso, il taciturno, timido e discreto protagonista maschile ha molte più chance della chiassosa ed esuberante sorella. Daniel Kaluuya, attore feticcio di Peele, non brilla quanto a espressività ma in questo caso il suo volto catatonico esprime la giusta distanza da tutto quanto sconvolgerebbe chiunque altro.
Peele scrive, produce e dirige un film che non può dirsi un horror vero e proprio, neanche ammettendone le licenze d’autore, perché molto dell’innegabile fascino di Nope sta nella sua ambientazione western e nell’estetica da fantascienza anni Cinquanta.
Gli strani fenomeni da cui è percorsa tutta la prima parte turbano grazie a un intelligente vedo e non vedo, la cui efficacia è amplificata da un sound design di prim’ordine, tutto note stridenti e gravi. La sensazione di inquietudine è la stessa destata da pellicole come “Lo squalo” o “Tremors”. I jumpscare sono pochi e l’atmosfera ansiogena e conturbante è interrotta da guizzi ironici. Il risultato è qualcosa che strizza l’occhio a diversi generi cinematografici, amalgamandone con cura le varie caratteristiche.
A spiccare, a livello tematico, oltre al suddetto rapporto tra uomo e natura, c’è la critica alla fame di successo. Ci sono poi numerosi rimandi alla storia della settima arte, sia nei suoi albori legati alle prime cronofotografie in movimento, sia nell’uso della telecamera a manovella (visto che l’UFO inibisce l’elettricità).
L’atipicità intrigante, le sequenze temporalmente dilatate, la messa in scena tecnicamente ineccepibile e il modo criptico e accattivante di gestire il mistero regalano potenza a quello che
è un film mai banale. “Nope” è un’opera in grado di cambiare per sempre l’idea di UFO (guai a svelare in che senso), e di smuovere alla riflessione e alla discussione lo spettatore all’uscita dalla sala.
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