Sotto al baldacchino color porpora, nella Sala del Trono di Palazzo Altieri, Carlo Verdone, quarant'anni di carriera e quaranta film, siede su una poltrona di velluto blu stile Impero e assume un'aria grave da Grande Ufficiale della Repubblica italiana. In effetti, lo è. «Ero commendatore dal 1993, per via della mia battaglia per l'antipirateria: ricevevo continue minacce. Stavolta, il presidente Mattarella e il premier Conte m'hanno conferito tale onorificenza perché ho molto lavorato», spiega l'artista, che ha trascorso un pomeriggio a cercare, invano, il cellulare smarrito in taxi: quel decreto di conferimento l'aveva confuso. «Me sò rovinato la giornata», scherza lui. Siamo a Piazza del Gesù, nell'ex-fortino della Democrazie Cristiana e se la Balena Bianca è affondata da decadi, l'icona del nostro cinema è saldamente al timone. E presenta Uno, dieci, cento Verdone, libro-strenna stampato da una banca milanese e nato da un'idea del fotografo Claudio Porcarelli: cento tra immagini, foto di backstage e ritratti inediti sul set rendono omaggio all'attore e regista romano, che da pedinatore della realtà ha tratteggiato molto bene pregi e difetti degli italiani.
Questa galleria fotografica è dedicata a sua madre Rossana.
«È stata la prima persona che credette in Carletto come attore. Incoraggiandomi ad affrontare il mio primo terrorizzante spettacolo teatrale nel 1977 con un calcio nel sedere: Vai in scena, fregnone! Perché un giorno mi ringrazierai. E infatti, non c'è giorno che non la ringrazi».
Con una madre così supportiva, quale rapporto ha con le donne, comprese le attrici?
«Al cinema, sono di una fragilità estrema. Non posso essere un trombante, se no prenderei fischi. Neanche Sordi è caduto in quest'errore: lui faceva il codardo, io l'uomo debole. Sono nato nel periodo del femminismo, quando gli uomini stavano in un angolo del ring a prendere cazzotti. Non posso essere il vincitore, ma quello che le prende e poi si riscatta».
Per gli attori maschi i parametri sono cambiati?
«Sì, molto. Per me è diventato più difficile scrivere e interpretare commedie. Fino agli anni '80 esistevano tipi da bar, quartieri, mercati, botteghe. Poi, i romani sono stati deportati a Tor Bella Monaca, o al Laurentino 38; le botteghe sono state sostituite dai supermarket e s'è persa la verità».
L'appiattimento generale ha eliminato anche i caratteristi, amati da Fellini, da Monicelli e da lei?
«I meravigliosi Mario Brega, la Sora Lella, Angelo Infanti... tutta una generazione di caratteristi fantastici è finita. Per colpa di registi e attori che tirano via film senza contorno. Per Risi, Steno e Fellini non esistevano solo protagonisti: le figure di contorno sono la linfa della commedia».
Come incide l'omologazione generale sul suo lavoro?
«Quando facevo i miei personaggi, da Leo Nuvolone a Armando Feroci, studiavo tic e manie. Nessuno aveva i tatuaggi che oggi hanno tutti. O un taglio di capelli estremo. Troppe cose sono identiche e non riesci a creare il personaggio. Ora si parla meno, si digita di più e sono tutti incazzati. Pensavo che dopo la Seconda Guerra mondiale avremmo vissuto in pace. Invece, c'è questo Medioevo senza fine».
Netflix la attrae?
«Non si ferma l'evoluzione delle cose. Anche se la perdita della sala è un grande dolore. Oggi la condivisione è sul web e il cinema italiano deve fare di più. Escono film brutti, ma Netflix ha catene di montaggio di sessanta sceneggiatori. Se vuoi l'anima dell'autore, devi andare al cinema. House of Cards m' ha inchiodato, poi stufato: che mondo de merda, mi son detto.
Il prossimo film?
«Sarà un film corale, con 5-7 attori: lo sto scalettando ora con Giovanni Veronesi. Di più non posso dire».
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